La storia di Iqbal[1] di Francesco D’Adamo, Edizioni EL

di Cosimo Rodia

 

È un romanzo di denuncia su un tema raccapricciante per i paesi occidentali in cui si è lentamente sedimentato il rispetto dell’infanzia.

È romanzata la vera storia di Iqbal Masih, il ragazzo pakistano di 12 anni diventato in tutto il mondo simbolo della lotta contro lo sfruttamento del lavoro minorile.

La struttura poggia su una invenzione letteraria: Fatima racconta l’incontro, l’amicizia, le avventure di Iqbal. La ragazza come altri personaggi sono inventati, ma ne condividono la sorte. Siamo a Lahore, una città dell’India; in una fabbrica clandestina di tappeti lavorano dall’alba al tramonto, incatenati al telaio, in condizioni disumane, bambini, ceduti dalle famiglie per aver contratto un debito. Nella fabbrica clandestina di Hussain Khan, dove è ridotta in schiavitù Fatima, arriva Iqbal, silenzioso, altero, con la schiena dritta «e con lui la libertà»[2], dice la ragazza. Iqbal si adegua al duro lavoro, ma quando sta per ultimare il suo tappeto finemente lavorato, lo brandella; il padrone lo segrega in un pozzo per alcuni giorni. Il primo atto di discontinuità ne procura subito altri: Iqbal è aiutato di nascosto da Fatima e da alcuni compagni coraggiosi. Iqbal riesce a scappare, conosce il “Fronte per la Liberazione dal Lavoro Minorile; denuncia Khan, e dopo una serie di peripezie, nonostante la polizia corrotta, la fabbrica chiude; i ragazzi sono liberati; gli amici di Iqbal rimangono col sindacato e il ragazzo diventa la bandiera della rivendicazione; compie viaggi per far conoscere al mondo le nuove schiavitù e le tante infanzie negate. Ma quando sta per denunciare il padrone di una fornace, in cui altri bambini sono ridotti allo stato animale, Iqbal è ucciso. Le pagine finali del libro sono struggenti: è la lettera di Maria a Fatima con cui l’informa della morte del loro amico, consegnandole un invito ideale (che è rivolto, in verità, a tutti gli uomini della terra): «Di una cosa ti prego: non dimenticare niente. Neanche il più piccolo, insignificante particolare. Raccontala a qualcuno la nostra storia. Raccontala a tutti. Che non se ne perda il ricordo. Solo così Iqbal sarà sempre accanto a noi»[3].

Un libro che tocca le corde umane, che stringe il petto e quasi mette addosso un senso d’impotenza, se non fosse per la consapevolezza che l’uomo è anche fatto di memoria e che a volte, anche se non sempre, non dimentica. Il ricordo qui diventa il prodromo di un mondo più rispettoso dei bisogni dei ragazzi.

 

 

[1] F. D’Adamo, Storia di Iqbal, Edizioni EL, Trieste 2001.

[2] Ivi, p. 26.

[3] Ivi, p. 147.

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