Ricami di pietra di Giuseppe Zilli, Tabula fati, 2022

di Anna Rita Merico

 

“In terre misteriose dove l’arguto scova la nobiltà della forma”[1].

I luoghi in cui la poetica si mostra possono essere infiniti. Ad ogni pensiero poetico, un luogo. Ad ogni luogo uno sguardo che sguanta visione. Per Giuseppe Zilli poetica e arte scultorea sono interfaccia l’una dell’altra, casa della poetica per eccellenza. Sottile filo di seta cuce la poesia alla pietra e la pietra alla poesia. Il segno sulla pietra, l’orizzonte del dire, l’incisione della ferita dicono, dunque, all’unisono parola poetica e forma scultorea.

Poesia e scultura tengono insieme il nudo del pensiero, il fuori della pelle segnata dallo scalpello, il silenzio della creazione. Nell’ultima silloge di Giuseppe Zilli si mostrano la pietra e tutti i suoi abitanti e la parola che, avvolgente, li tiene insieme. La pietra è materia abitata. Zilli ne svela l’anima e ne narra pieghe. La pietra è abitata dalla storia: storia della Terra, storia delle mani che la lavorano, storia di saperi tramandati. La pietra è abitata da licheni, dalle ombre che ne segnano tempi, dalle stratificazioni che ne dicono movimento, dalle muffe che ne dicono odori, dalle cicatrici che ne dicono provenienze, la pietra è abitata da radici di erbe abbarbicate. La pietra è abitata da ciò che si scorge e da ciò che la anima. Giuseppe Zilli sveste pietra e ne narra passaggi, architetture, attese, silenzi. Dentro la pietra scorrono le acque del senso e le linfe dei significati.

Terra barocca e merletti di pietra capaci di narrare l’andare della fatica umana. Nel silenzio, Giuseppe intercetta il raspare e il tagliare da cave le pietre ferite scavate dal luogo che le incardina alla cava. Linee e tagli. Polveri e sudori. Nel silenzio l’antica fatica degli zoccatori che donano memoria infiltrata nelle vene della pietra.

ricami di pietra/ colonne che si alzano/ verso il cielo/ il profumo/ dello scalpello scava/ lasciando solchi leggeri /l’ombra accarezza i contorni/ disegna confini/ il colore del sole/ appena sfornato/ patina la pelle/ occhi pigri/ cercano l’armonia/ un uragano attraversa/ il cuore, prima/ di ubriacarsi di/ bellezza, arrendendosi/ alla sua avventura.[2]

Una silloge tutta giocata intorno alla messa in opera di forma e parola. La forma si mostra, la parola si dice: entrambe duettano. Entrambe sanno della loro fervida complicità, del loro farsi vicendevole. La luce le accompagna allocando l’intero scritto nell’alveo di una poesia meridiana paga di un girovagare in paesaggi di monasteri, di terrazze, di cave, di viottoli, di muschi, di erbe selvatiche.

Ogni taglio nella pietra, una ferita. Ogni notte stellata tutta racchiusa nella ciotola di pietra lapislazzula, ogni sudore trattenuto nella ciotola di pietra giallosulfureo, ogni tensione muscolare posato nelle ciotola rossoferroso. Un’alchimia cromatica mette ordine nelle emozioni narrandone tempo e suadente memoria.

Il tempo, lento, torna nel proprio grembo. L’ordine dello sguardo ripone ogni sabbia nella piega del proprio scarto. La cava si erge come cattedrale segnata dal sangue e dal sudore del lavoro. Nei versi asciutti ed essenziali di Zilli ogni elemento naturale saluta la pietra cadenzando il ritmo della sua presenza nel mondo ristretto del luogo attraversato dall’Autore. Eppure è mondo che si slabbra in infiniti rivoli tante quante sono le miriadi di forme che la pietra assume e la parola narra.

“si allunga piano il giorno/ su case di pietra, le stelle/ ritornano nel nascondino/ della memoria./ il vento, il vento è caduto/ nel baratro dei ricordi”[3]

E c’è la pietraurna che raccoglie la caduta del ricordo. La pietra che s’alimenta dello sguardo di chi, a breve, la scalfirà per modellarne forma lasciandole perdere la sua antica funzione di elemento naturale per costringerla ad una funzione legata all’utilizzo. E ci sono le pietre accatastate estirpate dalla propria origine e tosate per un nuovo di cui non ancora sanno. E solchi, e linee, e venti modellano l’antico della pietra in otri e canopi in cui

“interro i pensieri,/ li coltivo per farli/ radicare.”[4]

Nella silloge si muove un io poetico molto centrato su sé eppure ciò ha un forte senso perché è un io poetante in dialogo con la materia e la ricerca di forma. È io che smuove, contemporaneamente, pietra e parola mostrandosi nel nudo del proprio atto percettivo e creativo. La pelle della pietra rimanda alla pietra del corpo, entrambe scalfite da scalpello e penna. Le parole impastate come pane si stendono sulle antiche pietre, sulle lastre s’addensano strati che non mostrano arcane geologie della vita, le pietre mostrano incuranza alla vita dell’uomo eppure, questa, è menzogna: nulla di più sensibile della pietra che impressiona su di sé, come un negativo di pellicola fotografica, il destino e i passi dell’umano andare. Pietre poggiate al suolo come antiche ossa che emergono da fosse comuni, nulla di più arso di questi pensieri sigillati della terra che incastonano orizzonti dell’umano, paesaggi del mito, luci del dentro.

“collego ansie,/ sigillo pensieri,/ arrivo puntuale/ per dissodare/ antiche melodie e/ riscriverle nei “cuti”/[5]

Una silloge in cui il farsi della creatività si alza nello spazio della solitudine condivisa con la pietra dialogante. Pietra e parola intrecciate e capaci di mostrare lo sguardo e l’anima dell’uomo che, silente, ne contiene tempo, bellezza, ricordo. Una silloge in cui discreto e potente detta legge un paesaggio salentino appena pennellato dalla parola eppure forte nella parola che, ad esso,  rimanda. È un verso lento, incisivo capace di condurre all’armonia del sentire. Armonia di natura e uomo. Armonia di ricerca e profondità del sentire: questa la poetica di Zilli, questa la bellezza che fluttua all’interno di queste pagine ricche di immagini e visioni tutte meridiane.

[1] Giuseppe Zilli, Ricami di pietra, Tabula fati 2022, p. 20

[2] Ivi, p. 82

[3] Ivi, p. 94

[4] Ivi p. 9

[5] Ivi p. 35

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