Ci salva l’umorismo o la filosofia?

di Sandro Marano

 

Che cosa accomuna lo scrittore umorista e il filosofo? E in che cosa differiscono? Entrambi guardano dall’alto le vicende umane e il mondo come va. E questo li distingue nettamente dall’uomo della strada che vive in pianura immerso nel guazzabuglio della quotidianità e non sa guardare oltre il proprio naso.

Sennonché lo scrittore umorista guarda all’umanità da una collina con benevolenza e, tutt’al più, con ironia, il filosofo invece da una montagna, a «seimila piedi al di sopra degli uomini e del tempo» (Nietzsche), con distacco, a volte con compassione. Il filosofo ci parla del vizio e della virtù, l’umorista dell’uomo in carne ed ossa con i suoi vizi e le sue virtù, l’uno è più attento alle cause degli accadimenti, l’altro agli effetti.

La riflessione del filosofo e l’osservazione divertita dell’umorista, che si combina con l’inventiva dell’arte, qualche volta si incontrano e allora danno luogo al capolavoro. È il caso del romanzo Il fu Mattia Pascal  di Pirandello. O, per venire a tempi più recenti, di Così parlò Bellavista di Luciano De Crescenzo.

Quanto a Pirandello per lui l’essere si riduce all’apparire. La vita non può non mascherarsi e la sua nudità, che la riflessione tragicamente scopre, porta l’uomo alla follia. Se la vita è soltanto cieco e irrazionale impulso, se è un moto che di continuo e sempre crea e distrugge forme, allora tanto vale non prenderla sul serio. Di qui l’ironia. E il teatro. L’umorismo salva Pirandello dal male di vivere e dal suicidio. Lo scrittore siciliano è autenticamente umorista nei romanzi L’esclusa e Il turno e in tante novelle delle sue Novelle per un anno. Si allontana dall’umorismo in Uno nessuno e centomila e nella sua arzigogolata produzione teatrale. La distinzione tra avvertimento del contrario e sentimento del contrario (che fonderebbe quella tra il comico e l’umorismo) è in verità di lana caprina, non regge, ed è difficile non dare ragione a Benedetto Croce che stroncò il suo saggio L’umorismo per aver confuso il piano estetico con quello filosofico. L’umorismo in verità è solo una specie del comico. Se proprio vogliamo, qualcosa di più fine, di più sottile, che strappa un sorriso piuttosto che una risata.

Tra i grandi scrittori umoristi italiani del Novecento un posto particolare occupa Achille Campanile, che nei suoi romanzi Che cos’è quest’amore?, Agosto moglie mia non ti conosco, In campagna è un’altra cosa, nei raccontini di Asparagi e immortalità dell’anima e nelle sue Tragedie in due battute dà il meglio di sé con un umorismo surreale, ridanciano, che ribalta e deforma la realtà e si fa gioco dei luoghi comuni, delle frasi fatte, delle inautentiche relazioni sociali.

Da tutta la sua prolifica produzione si discosta però un testo, Cantilena all’angolo della strada, uscito nel 1933 da Treves, che raccoglie gli articoli pubblicati da Campanile su “La tribuna” e su “La stampa” tra il 1926 e il 1930. Scritti «in quel suo italiano impareggiabile, lucidissimo, ironico», Cantilena all’angolo della strada (BUR 2019) «è per alcuni versi un manuale (non banale) della vita banale» (Stefano Bartezzaghi), nel quale Campanile ci appare insolitamente malinconico.

Ricorrono spesso in queste pagine il pensiero della morte, il sentimento del passare inesorabile del tempo, la nostalgia per l’infanzia ormai trascorsa, la compassione per gli sventurati, per i figli d’ignoti, per i carcerati, per i suicidi, la finta ammirazione per i mestieri sicuri («non ho mai visto un salumiere sconfitto»), la rassegnazione di fronte all’avvento delle macchine che snaturano le città. Citiamo, a mo’ d’esempio, alcuni passi sull’infanzia perduta, sulle nuove tecnologie che sopravanzano l’umano, sul tempo che corre via:

 «Un giorno, evidentemente, dev’essere stato l’ultimo giorno che andavo a giocare nei prati; certo, non lo sapevo che fosse l’ultimo; se allora qualcuno m’avesse detto: “bambino, da oggi non giocherai più nei prati”, prima di tutto non ci avrei creduto, poi mi sarei messo a piangere, non sarei tornato a casa e nessuno m’avrebbe potuto staccare dal prato; o, per lo meno, avrei chiesto di giocare almeno un’altra mezz’ora, per altri dieci minuti, Dio sa con che cuore, sapendo che erano gli ultimi. E poi, figuriamoci gli addii al prato, le lagrime, le volte che mi sarei voltato indietro a salutare con la mano. Invece, senza saperlo, tornai a casa come se niente fosse; e da quel giorno non ho più giocato in un prato».

«Le strade moderne sono fatte per le macchine e se vogliamo trovarvi un po’ di posto, dobbiamo assomigliare ad esse. Le macchine le abbiamo fatte noi, ma abbiamo avuto il torto di farle più svelte, più forti e più resistenti di noi. (…) Forse avremmo fatto meglio a non inventarle, ma chi poteva prevedere? Ormai non c’è che fare e bisogna seguirle. Non si scherza con le macchine. Si può non volare, avendo inventato l’aeroplano?».

«Il tempo perduto è l’unico tempo guadagnato. Noi non ricordiamo il tempo impiegato negli affari, o nel lavoro, ma ricordiamo il tempo perduto. E non soltanto il tempo perduto in feste, amori, e cene, ma anche quello in cui non s’è fatto niente, o si è rimasti a guardare una nuvola, o s’è andati in barca, o s’è stati seduti sotto un albero; ricordiamo le inutili attese, i vagabondaggi notturni, qualche sosta sotto le grondaie ad aspettare che spiovesse, qualche pomeriggio di domenica in casa, qualche sera d’estate passata alla finestra. (…) in realtà, non è il tempo, ma siamo noi che passiamo, così come, lungo le strade ferrate, non sono i pali del telegrafo, ma è il treno che corre».

Conveniamo che questo è il libro meno divertente di quest’autore. La comicità, se affiora qua e là, affiora suo malgrado, è nelle cose piuttosto che nella penna dello scrittore. L’osservazione attenta di quel che ci circonda prevale sull’inventiva e sull’elaborazione artistica. Campanile qui filosofeggia, ha un approccio fenomenologico, dismette per un momento i panni dell’umorista. Quando scrive: «dopo tanti anni il tramonto del sole ci trova ancora impreparati», non fa solo una battuta. Allude a quello sgomento, a quella stretta del cuore, a quel senso di tristezza che ci coglie quando avvertiamo che un ciclo sta per concludersi, che una civiltà sta per tramontare, che la nostra giornata volge al termine.

 

 

(pubblicato su Barbadillo del 18 giugno 2023, col titolo “Achille Campanile: “Quando l’umorismo intelligente sconfina nella filosofia”)

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