Scomparsa d’Angela di Alessandro Pavolini

di Sandro Marano

 

Uomo di azione e di penna, giornalista, scrittore, promotore di cultura, Alessandro Pavolini (1903-1945). È autore del primo romanzo sportivo italiano dedicato al ciclismo Giro d’Italia. Un romanzo sportivo (1927) e del saggio dedicato alla lotta del popolo finnico per l’indipendenza L’indipendenza Finlandese (1928).

Nel 1940, pubblica il suo ultimo libro Scomparsa d’Angela, riedito nel 2021 dalla casa editrice Passaggio al Bosco; è una raccolta di sedici racconti suddivisi in quattro giornate, quasi un omaggio ad un altro fiorentino illustre, Giovanni Boccaccio.

«I temi che affronta sono in genere avventurosi o sentimentali, ma non mancano i bozzetti di costume o le storie della piccola gente… sa intrecciare scene d’azione violenta a momenti di poesia crepuscolare… in Scomparsa d’Angela, il racconto che darà il titolo al libro, narra con accenti di commosso lirismo di una giovane aviatrice che scompare col suo aereo nel lago: “Quaggiù i meccanici continuano a esaminare il motore, svitano, avvitano pensierosi, e noi continuiamo a guardare nel lago. Ma so che noi non troveremo nell’acqua il corpo e che essi non troveranno nel ferro un perché”» (Arrigo Petacco).

Nei primi quattro racconti della prima giornata si respira il clima della provincia toscana dell’epoca. La politica per Pavolini non è altro che il prolungamento dell’amore viscerale per la sua terra. Dal borgo alla nazione. Il nipote Lorenzo Pavolini in Accanto alla Tigre (Feltrinelli, 2019), dove ripercorre la storia del nonno cercando le ragioni di una scelta esistenziale prima ancora che politica, scrive che è come se egli «sentisse la nazione e i borghi toscani in un continuum medievale, rinascimentale, barocco, risorgimentale, futurista».

Spicca tra questi quattro racconti, per la delicatezza dei toni e lo scavo psicologico, quello che è il racconto più lungo e articolato della raccolta, Fidanzata, dove si narra di un gruppo di ragazzi di varia estrazione sociale che nell’estate del 1917, capeggiati dalla giovanissima Fiamma, grazie alla «congiura delle fantasie» e alla «concordia delle trasfigurazioni» che li affratella, fanno degli ippocastani del viale, su cui ciascuno di loro si arrampica, le loro navi da guerra italiane:

«Fiamma, che era a capo di tutto, aveva preso sui compagni il potere di comando più profondo che possa esistere: quello che permette di ordinare non solo di far questo e quest’altro, ma anche di vedere in questa cosa un’altra cosa e di fare come se fosse un’altra. Essa aveva inventato il giuoco, al principio dell’estate: ora ne inventava giorno per giorno i particolari, gli sviluppi».

Ma questo giuoco non sarebbe durato a lungo. Le vicissitudini della vita disperdono la banda e in un’estate successiva si ritrovano soli Fiamma e Marino, già segretamente innamorato di lei:

«Ancora una volta Marino era davanti a Fiamma solo con lei sulla Duilio, e il cuore gli batteva forte Nel suo sentimento verso la ragazza confluivano tutt’insieme la sua passione d’obbedire, la sua affezione alla flotta, la sua soggezione di trovatello verso la signorina, il suo digiuno d’affetti».

Nel frattempo in paese crescono i disordini e le agitazioni sociali seguite al dopoguerra. Marino si rifiuta di togliere dall’albero il tricolore, che per lui rappresentava insieme la fanciullezza, il sentimento d’amore per Fiamma, il riscatto sociale e «i colori in cui imparò su un ippocastano questa cosa di nome Italia». Ma quando vede che i sovversivi stanno per bruciare in un falò la bandiera, che gli era stata sottratta, il ragazzo si precipita in paese per affrontarli e trova la morte:

«Così per un’ultima serie di attimi la sua avventura di ragazzo e la realtà fanno tutt’uno, tutt’uno nella polverosa sera, come nei lontani felici pomeriggi di quando gli alberi navigavano».

Segue la rappresaglia dei fascisti, che Fiamma intravede accovacciata sull’albero dove inutilmente ha atteso Marino:

«Sente spari in paese, un rumore come di tappi che saltano. Il paese ha gli usci chiusi, le finestre chiuse, le botteghe chiuse, quasi fosse ancora l’alba invece che mezzogiorno. Uomini corrono attraverso la piazza, strisciano i muri, picchiano alle porte, si soffermano alle cantonate. Spiccano neri, fucile brandito; e fra i marciapiedi vuoti la loro statura sembra accresciuta, come quella di certi ulivi potati e gesticolanti in piane deserte». 

E quando infine qualcuno chiede se dietro al feretro ci sarà qualche familiare, se almeno verrà quella ragazza con cui lo vedevano spesso giocare ed arrampicarsi sugli alberi, Fiamma non esita mormorando fra sé e sé:

«Oh verrò. Sbarcherò anch’io per l’ultima volta dagli alberi. Non volevi che entrassi nella vita, mamma? Ci entrerò da tua fidanzata, Marino, vicina vicina alla tua testa come quel giorno che pioveva».

Nei racconti della seconda giornata sono protagonisti uomini e donne di giovane età, con le loro aspirazioni, i loro egoismi e le loro rivalità in campo sportivo, dalla corsa al calcio, dalle bocce al volo. Ed altri giovani sono i protagonisti della terza giornata, dove troviamo uno dei racconti più politici, Sotto il disegno di un’aquila. Il protagonista è qui un aviatore, che incarna l’uomo nuovo del Fascismo, arrivato per la trascorrere la notte in una delle città fondate dal regime. La mattina al risveglio, mentre comincia a scrivere una lettera alla fidanzata, vede dal balcone venirgli incontro un contadino che l’ha scambiato per l’autorità e gli chiede di prendere nota della nascita del figlio. E l’aviatore, con dissimulato orgoglio, non si tira indietro e subito prende nota delle generalità dei genitori e del nome di quel primo nato a Guidonia su quel foglio dove stava abbozzando una lettera d’amore, ripromettendosi più tardi di andare al Comune per regolarizzare la situazione:

«Per adesso gli piace pensare che il primo nato di Guidonia è stato registrato sotto il disegno di un’aquila, nel primo foglio di una lettera d’amore».

I racconti dell’ultima giornata infine sono ambientati all’estero, in Sud America, in Romania, in Etiopia e in Spagna durante la guerra civile. Tra questi, riuscito e di grande bellezza è Levriero d’Irun, che è il racconto che più fa pensare allo stile scorrevole, teso, tutto azione di Hemingway. Anche in questo racconto, che si svolge in prima persona, protagonista è un aviatore, che deve raggiungere la Francia per una licenza. Durante il tragitto in treno acconsente alla richiesta di un combattente di portare alla famiglia, passando per Irun, il levriero appartenuto al suo capitano morto durante gli scontri. Pavolini descrive magistralmente la strana indolenza del levriero, finché arriva a Irun, la città rasa al suolo dai repubblicani in fuga dopo la battaglia che vi ebbe luogo tra il 19 agosto e il 5 settembre del 1936:

«Un vento oscuro e violento percuote i viali sconvolti. S’indovina il golfo in tempesta laggiù, l’aspro mare Cantabrico. E procedendo tra facciate simili a quinte senza spessore, nere, isolate, bucate, e tra lampioni gesticolanti come ulivi, vien da pensare che qui l’ira di una gente disperata ed ermetica si sia voluta scaricare a gara con il ciclone, con il maremoto, con le forze perentorie ed insensate degli elementi».

In prossimità di quel che resta dell’abitazione dei familiari il levriero, improvvisamente rianimato, gli sfugge di mano e a nulla serve richiamarlo. E il racconto termina con questa amara riflessione del protagonista, quasi presagendo la tragedia che si sarebbe consumata qualche anno dopo:

«Che cosa importa se un filo di questa tragedia m’è passato fra le mani un momento, in forma di un guinzaglio? A un tratto mi sento di nuovo estraneo, estraneo fino alla paura, e inciampando torno nel viale, a seguire il carretto verso il confine».

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