Bestia di gioia di Mariangela Gualtieri, Einaudi, 2010
di Claudia Zuccarini

Bisogna accostarsi piano alla poesia, in particolar modo a quella della Gualtieri, sia per l’intensità dei suoi versi sia per la lettura non semplice a volte.
Bestia di gioia appare come un frutto maturo nel percorso della poetessa, lo stesso frutto che lei decanta con il fremito delle piccole scoperte. Il linguaggio è sempre più curato, ricercato, oscillante tra lo stupore e il sogno, con pieni e vuoti, così come la vita stessa. Talvolta i versi sono ostici, trasognati, intellegibili, come uno sfoggio manieristico di stile.
Eppure la Gualtieri la si avverte vicina, nel suo solitario sentire, nella tristezza frammista alla contentezza del vivere, nelle sue odi alle sfaccettature dell’esistenza.

“Penetra il maleficio della domenica.

In lei un bastimento
rovesciato, con i suoi relitti.
C’è buio in lei. Un’ombra
parallela al cuore, al suo bordone
basso. Stanchezza di secoli.
Uno sgommare inutilmente
nel nero. Un darsi da fare
che spolpa.

Tutto reclama un ozio
un’attesa. Ma l’incalzante
luce, quel dinamismo di faccende
addita mete nuove
e la solita corsa.

Lei è triste triste triste.
Manda la sonda fin dentro
l’altare, analizza l’amaro.
Manda la sonda fino alla radice
del fiato. Si dice che è di noi
questa stretta, il vuoto al centro
si dice che poi passa
questa rapina.
Tutto il corpo chiama
il suo lato distante.

Tutto manca, oggi
nel bel panorama.
Una parte reclama
e non armonico e distante
lo spazio intorno fugge
s’allontana. Il mondo
degli uomini è un pantano.
Non c’è. Lei pensa – sarei sola
ovunque.”

Lascia un commento