Ricami di pietra di Giuseppe Zilli, Tabula fati, 2022

di Cosimo Rodia

 

Un aneddoto racconta che Michelangelo dopo aver terminato il suo ‘Mosè’, sembrandogli così vivo, domandò: ” Perché non parli?”

Sembra questo il leit motiv in Ricami di pietra di Zilli, prefata da Daniele Giancane, ottantacinque testi dallo stile epigrammatico, con al centro le pietre leccesi, con cui l’autore interloquisce e nelle quali egli vede forme potenziali, che la vis creativa mette in chiaro.

Le liriche di Zilli hanno una natura monotematica, da cui possiamo estrapolare il suo pensiero molto prossimo a quello di Lavoisier, secondo cui nulla si distrugge e tutto si trasforma; infatti, per Zilli le pietre non sono corpi morti, sia perché il vento le trasforma, sia perché esse sono la testimonianza della nostra memoria, nonché la rappresentazione plastica della nostra identità.

“Coltivo pensieri/li ripongo in ciotole/scavate in pietre/colorate dal tempo”. Più avanti si legge: “Le mani ascoltano/il battito, prima che il segno,/prima che l’occhio/penetri e succhi/il vagito millenario/dei colossi di polvere”.

Penso che questi versi raggrumino il senso dell’intera silloge, un progetto avvincente di uno scultore-scrittore che attraverso la sua ricerca di ‘pietre’, tenta di interrare “pensieri/li coltivo per farli/radicare”. Una modalità tesa a recuperare un rapporto vero con la terra e con le proprie origini.

Così inizia l’opera di cristallizzazione dell’utopia dell’autore, ovvero: “Porto senza peso/il loro peso, lo alleggerisco/con carezze e scalpello”, allora, cancella il peso, ridà luce alle pietre, riscrivendo contestualmente la realtà. Ecco, con la creazione di nuove forme, l’artista realizza il progetto di un nuovo mondo possibile. E per realizzare il suo piano, egli diventa ‘cercatore di pietre’, rovista tra i rovi per la scheggia che nasconde in sé un’altra forma; e nella fase scultorea troviamo un transfert dall’artista alla pietra e viceversa; ovvero, l’artista vede la forma presente nell’essere informe e la tira fuori; e quella forma, contestualmente, si rende disponibile ad appalesarsi.

L’artista, insomma, coglie primamente le ombre, poi con lo scalpello cancella le immagini opache, trasformando le ombre in forme reali: “Guardo opache/immagini riflesse/sulla pietra. Ne colgo l’essenza/prima che lo scalpello/le cancelli”.

In questo lavorio, si percepisce in Zilli uno spirito francescano di grande amore per Madre terra, oltre che per il suo Salento primitivo, selvaggio e arido. Nelle pietre, l’autore di San Donato, vede cristallizzato “il segreto millenario/della memoria”. Le pietre sono guardiani silenti del divenire umano; di esse egli scrive: “Attraversano/il tempo/incuranti/del destino umano”, aspettando un’altra possibilità: “Attendono/fiduciosi/una seconda vita”.

A lavorare le pietre ci pensa anche il vento, che le modifica, come a dire che esse sono vive e sempre ricettive, tanto che Zilli le definisce: “Sentinelle cieche/sorvegliano stati d’animo/pascoli vuoti”.

Nella raccolta, il paesaggio è quello dei muri a secco, della pietra leccese, della terra desertica, arida, di luoghi silenziosi, statici, smemorati; solo che, a me pare, in Zilli vi sia un tentativo di rifondazione etico letterario anti-modernista, secondo il seguente ragionamento: la pietra leccese ha il primo strato indurito, dietro il quale si nasconde la parte morbida; il lavoro creativo ha la possibilità di riplasmarla e rivitalizzarla; dietro a questa visione sembra che si nasconda la possibilità superiore di ridisegnare il mondo, partendo dalla terra che ha visto nascere e soffrire i padri e sulla quale è radicata anche un’eredità valoriale. Ora nella rielaborazione delle forme, nel processo di adattamento e riadattamento del mondo, si coagula la ratio di una speranza o di un sogno, che altro non è che l’Utopia di cui è animato Giuseppe Zilli.

L’oggetto delle liriche è l’incanto per le terre salentine, solo che al contrario della visione bodiniana, in Zilli il Sud ha la forza, non di soccombere alla ‘cabala’, ma di riscrivere un sogno utopico, di un nuovo possibile futuro. Per quanto le immagini di Zilli siano di un Salento arido, inerte, assetato, pietroso, il rimodellamento delle pietre è un monito evidente di rifioritura; così, l’Autore, attraverso la parola, riscatta un Sud storicamente soccombente, perché presuppone la possibilità di rinascita; la pietra, oltre ad essere l’oggetto del lavoro creativo, è evidentemente la metafora del risollevarsi della ‘terra delle formiche’.

Dal punto di vista formale, la poesia di Zilli è essenziale, con un registro medio, infarcito con qualche parola vernacolare, ed arricchita da copiose figure retoriche. È facile imbattersi, nella raccolta, in metafore (“mieto dune”), sinestesie (“scava il profumo”; “I miei silenzi/li coltivo”), sineddoche (“lo scalpello/bussa/sulla pietra”), personificazioni (“sulla pelle della prima rugiada”), ossimori (“aquiloni di pietra”).

Tutto questo apparato metrico-semantico, dalle convincenti scelte stilistiche, rende la poesia scorrevole e la carica di sogno per un orizzonte tutto da costruire, come già lasciano presagire le installazioni Zen di Zilli, che suggeriscono un mondo nuovo, più umano, più semplice, più lento e, direi, più naturale.

Lascia un commento