Guglielmo e Mabruk di Mino Milani, Edizioni EL, 1999

di Cosimo Rodia

 

Guglielmo e Mabruk di Mino Milani (1928) è un romanzo che ha come protagonisti due ragazzi, Guglielmo di undici anni, tamburino nell’Armata di Sua Altezza Serenissima, e Mabruk, coetaneo, pifferaio nell’esercito del Gran Sultano. Il racconto è ambientato nel XVIII secolo ed inizia con uno scontro tra l’esercito della Repubblica di Venezia e quello turco. Guglielmo è un orfanello affidato al caporale Ettore ed ha un cane fidato, Friz. Lo scontro è cruento; Guglielmo nel fragore della battaglia sviene. Si sveglia di notte e si ritrova in una fossa, con accanto Friz e Mabruk. Nessuno dei due sa di essere nemico dell’altro. Si presentano; Mabruk ha con sé il gatto Vladimiro. Si aiutano reciprocamente: uno ha del pane, l’altro ha dell’acqua, e smorzano le fitte allo stomaco. Per vincere il freddo passano la notte quasi abbracciati, insieme anche ai due animali. All’indomani, si accorgono di appartenere a schieramenti diversi:

 

«Guglielmo sussurrò: – Allora, sei mio nemico?

Fissandolo, Mabruk scosse piano la testa e disse:

– No. Sono un ragazzo.

– Anch’io, – rispose Guglielmo; e non avendo altro da dire, ma sapendo di dover dire qualcos’altro fece, accennando al gatto (bello, marroncino con il muso nero e gli occhi azzurri):

– Quello è il gatto Vladimiro?

– Sì. E quello è il cane Friz?

– Sì. Guarda. Sono diventati amici».

 

Simbolicamente, diventano amici prima gli animali. Intanto i soldati della Serenissima trovano Guglielmo e si convincono che abbia fatto un prigioniero, quindi conducono Mabruk e Vladimiro al campo. Il piccolo veneziano quando ritrova Ettore, già zoppo ed accecato ad un occhio, gli chiede di intervenire per liberare il suo nuovo amico. In quanto ferito in battaglia, Ettore può chiedere un regalo direttamente a Sua Altezza Serenissima; e il caporale ne chiede due: la liberazione del turco e il congedo al tamburino valoroso. Ettore, dunque, invita i ragazzi a partire verso occidente, cercare il villaggio Sant’Andrea e fermarsi dall’amico Giuseppe, dove li avrebbe raggiunti appena congedato dall’esercito. I ragazzi partono con i due fedelissimi animali e i loro strumenti musicali, per realizzare il sogno di libertà, affrontando una serie di peripezie e discriminazioni. Quando sono quasi allo stremo, giungono alla fattoria:

 

«Ci hanno detto che questa è la sua fattoria, – disse Mabruk; e se il contadino gli avesse detto di no, eh, sarebbe caduto per terra e non si sarebbe alzato più.

– Sì. Era questa.

– Era?

– Già. Se volete andare dal vecchio Giuseppe, ragazzi, – fece il contadino, – dovete andare all’altromondo. Va bene che, a vedervi, ci siete proprio vicini, ma…

-…il vecchio Giuseppe, – balbettò Guglielmo, -…è morto?

-Sì, poverino. Un mese fa.

-…allora questa, – disse Mabruk in un fil di voce, – non è più la sua fattoria?

– No. C’è un  nuovo padrone, adesso.

 

Un nuovo padrone. Non più il vecchio Giuseppe, non più l’amico di Ettore, quello che li avrebbe accolti, li avrebbe ospitati, nutriti, difesi… Un nuovo padrone, che forse avrebbe chiamato Mabruk “faccia nera” e dato loro da mangiare pane secco…

…tutta quella strada, allora, quella fatica, quella speranza; tutta quella battaglia allora era stata inutile?».

 

Mentre il giovane contadino chiama il nuovo padrone, i due ragazzi nella disperazione progettano di tornare indietro, consapevoli anche di non avere la forza di muovere un passo:

 

«Tremavano. Quando Friz e Vladimiro furono vicini a loro, ecco i due ragazzi s’inginocchiarono e presero tra le braccia il cane e il gatto, i loro compagni di viaggio e di sventura…

Ta-tac.

…eh, no, non sarebbero più stati capaci di far nulla. Avrebbero chiesto al nuovo padrone un pezzo di pane. Poi si sarebbero rintanati in qualche angolo a morire, come fanno le bestie che, per morire, si nascondono.

Ta-tac.

…e che cosa avrebbe detto Ettore? Nulla. Non avrebbe saputo nulla di loro. Chissà dov’era. Nell’Armata di Sua Altezza Serenissima…

T-tac.

…cos’era quel rumore che s’avvicinava, che si ripeteva eguale e anzi sempre più rapido…

Ta-tac, ta-tac, ta-tac.

Guglielmo spaventato guardò. Ormai  non aveva più nessun coraggio per nulla. Vide. Capì. Seppe. Sentì come il cuore scoppiare. Quel rumore, come non l’aveva riconosciuto subito?…il rumore dei passi d’uno zoppo… Gridò:

-ETTORE!

Ettore si fermò, serrò le labbra, corrugò la fronte, poi allargò le grandi braccia e disse con voce commossa: – Ragazzi!».

 

Il nuovo padrone è proprio Ettore, giunto alla fattoria prima di loro. Le ultime pagine sono suggestive e coinvolgenti; quasi visive. Il lieto fine irrompe all’improvviso, all’ultima pagina, colorando ogni cosa di senso e di calore. E il lieto fine è pure un’attribuzione di senso a tutto il viaggio; ad un attraversamento che è formativo perché capace di temprare lo spirito e il corpo. Un lieto fine che infonde fiducia, che dà più peso agli aspetti positivi della vita, nonostante tutto.

Guglielmo e Mabruk è un romanzo interculturale, in cui il sentimento d’amicizia muove le azioni e le relazioni; un sentimento che supera ogni forma di pregiudizio per alimentarsi di umanità pura, quella poggiata sulla considerazione che in tutti noi scorre del sangue, abbiamo sentimenti comuni, siamo cristianamente tutti fratelli in Cristo. È anche un racconto d’avventura, ma quella tesa al raggiungimento di un obiettivo pratico; e nonostante inizi con una battaglia, esalta la vita. È straordinario il primo incontro tra Guglielmo e Mabruk. Sono svenuti ed è notte; per combattere il freddo uniscono i loro corpi con quelli dei due animaletti. Un’immagine che esalta l’umanità e la circolarità affettiva  e che dipana un monito: la vita la si affronta tenendosi per mano. Una massima confermata da tutta la storia successiva: le difficoltà, la fame, la solitudine, sono battute perché i due protagonisti rimangono insieme.

È un libro che supera gli stereotipi razziali e mostra come il razzismo non tocchi i ragazzi. Il panettiere scaccia Mabruk in quanto negro; eppure è un dettaglio che non condiziona i due giovani quando s’incontrano per la prima volta nel fosso. Per fortuna, nei ragazzi albergano ancora intatti i sentimenti d’uguaglianza e di fratellanza! Guglielmo e Mabruk sono due personaggi splendidi che, senza famiglia, progettano un futuro insieme con un naturale slancio affettivo e con altrettanta naturalezza nell’essere uno per l’altro, come se l’altro fosse una parte di sè. Passaggi commoventi, per quanto a volte apparentemente forzati. Infatti nei ragazzi di undici anni quando hanno fame scatta un egoismo istintivo, che porta ad impossessarsi di un pezzo in più di pane. Qui no. I due protagonisti sono così determinati ad essere giusti nella divisione anche del pane raffermo, che sembrano a volte personaggi disegnati.

Un bel libro i cui protagonisti possono essere classificati in due categorie: una, quella dei buoni; l’altra quella dei cattivi-egoisti-razzisti-individualisti-insensibili verso il prossimo. Sono due categorie classiche; da una parte i cattivi che digrignano i denti: il panettiere, il contadino insensibile…; dall’altra i buoni: la figlia del contadino, ma principalmente Ettore, il caporale dal forte spirito paterno.

Un romanzo sull’amicizia e sui sentimenti di solidarietà senza pregiudizi, ma anche un romanzo d’avventura. Il viaggio che i ragazzi intraprendono dal campo di battaglia al villaggio di Sant’Andrea è uno straordinario cammino fatto di prove da superare: attese, lavori per sopravvivere, fame, freddo… Nel leggere il libro il lettore spesso si chiede se arriveranno a destinazione, se esiste Sant’Andrea, se troveranno la fattoria di Giuseppe. E di fronte alle difficoltà i protagonisti vanno avanti con caparbia e il climax cresce. Quando le forze sono ridotte al lumicino e i ragazzi sono quasi in preda al delirio per stanchezza e denutrizione, incontrano la segnaletica per Sant’Andrea. Alcune trovate narrative allungano l’agonia: i ragazzi giunti al villaggio devono tornare indietro di qualche miglio per arrivare alla fattoria del vecchio Giuseppe.

Ed è in agguato un colpo di scena formidabile. Alla fattoria apprendono che Giuseppe è morto. Fatica sprecata, dunque? Sono attimi struggenti, c’è chi pensa di tornare indietro ad arruolarsi, chi di lasciarsi morire in un angolo… Ed ecco il colpo di teatro: dalla fattoria esce il nuovo proprietario: è Ettore. Il lieto fine avviene mentre il cuore è ancora compresso.

Il romanzo è un inno alla vita, alla fiducia, all’amicizia. È anche velatamente pedagogico; ad esempio, i ragazzi pur nell’indigenza si lavano le mani quando mangiano un tozzo di pane; non dimenticano di pregare l’Altissimo perché li aiuti; non rubano neanche in stato di necessità… Ma a prendere il sopravvento sono le azioni narrate, che senza indugio passano da un luogo ad un altro, da un’ambientazione ad un’altra, da un personaggio ad un altro, dopo aver rappresentato l’aspetto essenziale, il cuore di una situazione, senza eccessivi contorni. Un romanzo vivacizzato dai due animali, il cagnolino Friz  e il gatto Vladimiro. Non compiono grandi imprese; sono solo degli accompagnatori, ma dal quadretto si evince pure uno spirito animalista tutto moderno, in linea non solo con lo spirito preadolescenziale, ma con la sensibilità francescana del rispetto assoluto di tutti gli esseri viventi del creato.

 

 

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