Il senso antropologico del viaggio

di Sandro Marano

 

Né lo stare fermo né l’andare via per sempre sono propri dell’uomo, bensì l’andare e il tornare. «Divieni ciò che sei»: così suona l’imperativo morale che, non a caso, Nietzsche riformulava in opposizione all’etica kantiana, impersonale ed astratta,  e che rimanda a un andare che è un ritorno, a un farsi che è un approssimarsi al sé.

«E lieto del vento Ulisse apriva le vele».

Ed Omero nel libro V dell’Odissea in quella letizia di Ulisse ci descrive per l’appunto la condizione autentica dell’uomo, che è insieme irrequietezza e nostalgia, un andare e un tornare.

 

La nostalgia, Omero e i poeti del Novecento

Sennonché, tornato ad Itaca, fatta strage dei Proci e riconosciuto da Penelope, che farà Ulisse? Passerà il resto della vita a vedere «il fumo che sale dai tetti di Itaca», come scrive Omero nel I canto dell’Odissea? O lo riprenderà l’irrequieta voglia di viaggiare con i compagni  «e volta nostra poppa nel mattino, / de’ remi facemmo ali al folle», come vuole Dante nel  canto XXVI dell’Inferno? O piuttosto si limiterà a nutrire nostalgia della maga Circe, di Calipso dai bei riccioli o di Nausicaa simile a una dea, come sembra suggerire Borges, quando dice: «ma dov’è quell’uomo / che nei giorni e notti dell’esilio / errava per il mondo come un cane / e diceva che Nessuno era il suo Nome»?

I poeti del Novecento s’interrogano sul senso del viaggio e ci mostrano l’altra faccia del viaggio. Per Ungaretti il viaggio, che è poi la grande metafora della vita stessa, è allegria di naufragi; per Borges è sogno e oblio; per Kavafis è amor fati; per Pavese è fuga e riconferma della propria inesorabile solitudine.

 

L’Odissea poema del viaggio

L’Odissea è il poema del viaggio. Il viaggio di Ulisse è il paradigma di tutti i successivi poemi e romanzi della nostra civiltà letteraria, a cominciare dall’Eneide fino ai romanzi di Jules Verne e alle avventure del Gabbiere di Alvaro Mutis. Il viaggio è una grandiosa metafora, l’archetipo fondamentale e più diffuso della nostra civiltà. Rappresenta la vita stessa dell’uomo, la ricerca di sé, il mettersi alla prova; è un fare conoscenza ed esperienza di genti, linguaggi, costumi, luoghi, vicende. È, come dice elegantemente il filosofo spagnolo Ortega y Gasset, un «incontrare sé stesso nel mondo».

 

L’avventura

Al viaggio è essenziale il senso dell’avventura (la parola avventura viene infatti dal latino advenire, vale a dire andare incontro a ciò che accadrà). Ma il senso dell’avventura cambia col tempo.

Sullo sfondo dell’Odissea vi è una civiltà tradizionale, dove divino, naturale ed umano si corrispondono. Gli dèi intervengono nelle vicende umane, déi e uomini si parlano e l’eroe si sente a casa nel mondo. Non c’è alcun iato tra uomo e natura.

Spigoliamo qua e là nel poema:

«Ed ecco quand’era per giungere all’amena città / gli va incontro Pallade Atena in figura / di fiorente fanciulla che in mano recava una brocca» (libro VII).

«E la notte scese / rorida e noi ci assopimmo dove l’onda si frange» (libro IV).

«Pietà sentì dell’errante Ulisse paziente, / come folaga a volo emerse dal mare, / si posò sulla zattera e disse all’eroe» (libro V).

«Al brillare dell’Aurora, che rosee ha le dita» (libro VIII).

«Ma contro le navi il tonante Zeus, / che i nembi raduna, scagliò una tempesta / orrenda col vento di Borea: e nembi di pioggia / nascosero il mare e la terra» (libro IX)-

«Spingemmo in silenzio a riva la nave / dentro un seno tranquillo; un dio ci guidava» (libro X). E così via.

Sennonché nella civiltà della tecnica accade che il mondo perda a poco a poco il suo incanto. Non è un caso che sia proprio don Chisciotte il primo romanzo moderno. Osserva in proposito Ortega y Gasset: «fiore di questo nuovo e grande indirizzo che assume la cultura è il Chisciotte. In esso declina per sempre l’epica con la sua aspirazione a sostenere un mondo mitico confinante con quello dei fenomeni materiali, ma da esso distinto. Si salva, è vero, la realtà dell’avventura; ma tale salvezza implica la più pungente ironia. La realtà dell’avventura si riduce all’ambito psicologico».

 

La svolta antropocentrica

Nel 1600 con l’affermarsi della ragione matematico-scientifica si ha la svolta antropocentrica come visione del mondo: l’uomo spezza il filo che lo legava alla natura e alla divinità, si separa dal divino e, restando solo con le cose, le spoglia d’ogni significato simbolico. La natura non ha più valore in sé. L’uomo ha con la natura un rapporto di mero dominio in nome del profitto individuale. La morte di Dio annunciata da Nietzsche lascia l’uomo nella sua irrimediabile e radicale solitudine.

 

Lo strano viaggio di Drieu

Il viaggio allora si fa strano. C’è sempre la volontà d’avventura, ma la scena è dominata dal disorientamento, dallo spaesamento, dallo scacco. Gille, il protagonista de L’uomo coperto di donne e di Che strano viaggio di Drieu La Rochelle, come pure Gilles, il protagonista dell’omonimo romanzo dello scrittore francese, testimoniano appunto questa scissione tra sogno e realtà, tra divino e umano. L’uomo si separa dagli alberi e dalle stelle e precipita in quell’ «immensa palude al di fuori della quale non vi è più nulla» (Che strano viaggio). Certo, l’amore e il pensiero restano «la sola grande risorsa contro il grande silenzio» (Che strano viaggio). Ma cozzano inevitabilmente contro la decadenza d’un’intera civiltà. I romanzi di Drieu sono paradigmatici d’un’epoca intera.

C’è una magnifica pagina in cui lo scrittore francese descrive l’inverno nella campagna: «Chi non conosce la campagna d’inverno non conosce la campagna e  non conosce la vita. Attraversando le vaste distese spoglie, i villaggi acquattati, l’uomo di città viene bruscamente messo a contatto con l’austera realtà contro la quale le città sono costruite e racchiuse. Gli si rivela il duro rovescio delle stagioni, il momento cupo e penoso delle metamorfosi, la condizione funebre delle riproduzioni. Allora egli vede che la vita si nutre della morte, che la giovinezza emerge dalla meditazione più fredda e più disperata e che la bellezza è prodotto di clausura e di pazienza» (Gilles).

Però, questo inverno, «più durevole, recante in sé, forse, la minaccia dell’irrimediabile», è anche una splendida metafora dell’inverno dell’anima, della decadenza della nostra storia e della nostra società.

 

Due mondi a confronto

Se confrontiamo Omero e Drieu La Rochelle, il mondo degli antichi greci rappresentato dall’Odissea e quello dei moderni rappresentato in molti dei romanzi e dei racconti di Drieu La Rochelle, troviamo analogie e differenze. Il viaggio di Ulisse si situa dopo la guerra di Troia; quello di Gilles dopo la prima guerra mondiale. Entrambi tornano a casa, Ulisse a Itaca, Gilles a Parigi, ma l’uno si sente a casa, l’altro si sente spaesato. La civiltà degli antichi Greci è in ascesa; quella dei moderni è in piena decadenza. Tutte le possibilità sono aperte per Ulisse; il mondo, dominato dalla tecnica e dall’economia, non ha più incanto per Gilles. È vero, ci sono ancora avventure per Gilles, avventure galanti e avventure politiche, ma le donne e la politica sono in fondo solo un surrogato del sacro.

Gilles è un magnifico affresco storico-politico, ci racconta un’epoca di decadenza, gli anni fra le due guerre. Ma è anche il diario di un uomo solo, inquieto, che ha perduto Dio e ne sente l’intimo bisogno. Il romanticismo fascista di Drieu (il culto della forza, il ritorno alla natura, la necessità di nuove élites, il disprezzo della democrazia), presente nella sua saggistica e in filigrana anche nella sua narrativa, è tutto qui, nel tentativo di ricomporre la rottura tra umano e divino, tra uomo naturale e uomo sociale. È nella «ricerca disperata di un ambiente, di un gruppo in cui poter trovare un porto, un lembo di terraferma» (Pol Vandromme).

«I francesi – scrive Drieu in Gilles che è il suo capolavoro – avevano edificato le chiese, e ora non potevano più rifarle, non potevano più fare niente di simile (…). Ora si costruivano edifici amministrativi, oppure scatole d’affitto (…). C’era stata la ragione francese, questa appassionata scaturigine, orgogliosa, furiosa del secolo dodicesimo, del secolo delle epopee, delle cattedrali, delle filosofie cristiane, delle sculture, delle vetrate, delle miniature, delle crociate. Ora tutto questo scompariva. Qui e in Europa».

Il senso dell’avventura, se non è perduto, si è certamente impoverito. Il viaggio, dicevamo, si fa strano, perché ormai è un vagare senza meta e senza ritorno. «Non abbiamo mai vissuto tanto miseramente», confessa Drieu ne L’uomo pieno di donne.

 

 

 

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