Canti al crepuscolo di Anna Cellaro, GCL edizioni, 2024

di Cecilia Pignataro

 

“La poesia è il miracolo della sintesi estrema della parola nella bellezza onesta della forma”, in questa breve formula Maurizio Cucchi, uno dei massimi esponenti della lirica contemporanea, condensa il senso più profondo della poiesis. E “miracolo della sintesi” e “bellezza onesta” sono i corni all’interno dei quali spazia Canti al crepuscolo di Anna Cellaro.

Se l’essiccamento linguistico, l’asciugatura del verso e l’azzeramento della punteggiatura virano all’Ermetismo, la parola onesta, portatrice di verità, curva in direzione di Saba. Novecentismo e Antinovecentismo, categorie ritornanti nell’ardua impresa di una mappatura del canone poetico del secolo scorso, nei testi di Anna Cellaro si fondono in una scrittura proteiforme.

Nel canto programmatico, infatti, l’immaginifico poeta imprigionato nei panni di un linotipista, come un auriga impavido, su un carro ubriaco lanciato verso l’ansa del fiume, ricerca l’alfabeto della bellezza, meta accidentata dell’aletheia. Non una verità perspicua di per sé, ma, con Heidegger, uno svelamento che si arricchisce di significati molteplici legati all’essenza del singolo uomo. Non è relativismo, ma una estroflessione soggettiva della Wahrheit.  Quando il bagliore della pepita d’oro si adagia sull’orlo del piatto plumbeo, l’autrice ammonisce il lettore che il luccichio dell’oro nasconde un’altra faccia, oscura e plumbea.

Il cammino di ricerca di Anna Cellaro in questa silloge è sussultorio: inattese salite e ripide discese, baluginii improvvisi e repentini blackout Sono l’orlo sfavillante /di quella nuvola davanti al sole/ ora che si fa sera con il tempo del mare. In un altro componimento La risacca che muore in gola si contrappone al Randagio il cielo.

Un continuo movimento ondulatorio tra spazi interni e spazi esterni ricorre in molte liriche. Che sia vetrata, soglia o finestra, una barriera si staglia creando uno steccato. Claustrofobici sono i luoghi chiusi da pareti strangolate dal tempo, da cui appena percepibili ritagli di cielo nascosti dalla tenda non sgombrano l’oscurità.

Mai l’io intona un canto sereno, raramente si sperde estatico nella contemplazione della natura. Il sole tondeggia tra i veli arancio apre uno scorcio placido su un tramonto assolato, ma, con una torsione immediata, lo sguardo si posa sulla distesa incenerita della murgia: la cromia sfavillante si è subito spenta nel nero cinerino che tutto assorbe e nel quale si dipanano i labirinti delle solitudini dell’autrice.

 In una paradossale forma di panismo al contrario, ella non si fortifica suggendo la linfa vitale dagli elementi naturali. E infatti l’immagine potente, scandita euritmicamente dall’anafora Sono il vento tra i cumuli di ginestra sinuosi. / Sono l’acqua contro le mille spighe di giugno, è ribaltata nella strofa finale Sono il tempo dell’assenza…che annienta la prospettiva di rinascita.

E a questo punto sorge il sospetto che testo e contesto siano fortemente metaforizzati. Che il pudore (Il pudore sul mattone rotto dei tuoi passi) trattenga la cognizione del dolore perché non si esibisca.

L’evento crash è innescato da un trauma che spalanca un baratro nell’esistenza della poetessa? Da lì la consapevolezza della caducità della vita? Il carme collocato, non a caso in ouverture, suggerisce questa interpretazione: Ci riconosciamo effimeri, / infiorescenze di maggio…  sorrisi e pensieri si azzerano nel bip del monitor multiparametrico, nella voce del tuo tracciato. Tre le righe, infatti, altre voci si mischiano a quella principale. In un’abile polifonia, echeggiano prove generali di un dialogo, che, per esprit d’escalier, non si è concluso perché da quell’interlocutore si è preso congedo: Resto nel suono della tua risata/ che calma mi aspetta sulla soglia.

Questo “monologo dialogico” riferito ad un tu concepito come un’entità oramai astratta riporta alla mente le lettere al mondo, il sommesso colloquio con cui Emily Dickinson comunicava con l’esterno dalla stanza in cui aveva deciso di recludersi.

Ma se l’angolo nascosto è ricercato spontaneamente dalla poetessa statunitense, non è così per la scrittrice tarantina. Il suo non è un esilio autoimposto, ma obbligato dalle circostanze. Eppure entrambe sviluppano la capacità di filtrare la realtà e la natura soggettivizzandole, entrambe evitano il volo d’uccello su panoramiche distese, entrambe si appuntano su singoli particolari che prendono corpo in versi sincopati e franti, entrambe sono accomunate dalla poetica del silenzio, un antro abissale, in cui tutto si annulla.

Grandi strade di silenzio portavano lontano, /

Qui non vi era segnale – né dissenso/ né universo – né legge –/ Qui

tuttavia il tempo non aveva fondamento/ perché l’epoca si estingueva

(Dickinson);

 

Mentre sfogliavi le profondità / della mia essenza/ scrutavo

l’immutabile colore /del silenzio, un cielo oltre/

il limite fisico delle mura /che sfondando il lucernario/ custodisce le vertigini.

(Cellaro)

 

Non so se consapevole o no, comunque sia, traspare in controluce la lezione della poetessa veneta Patrizia Valduga e negli arditi accostamenti e nella contaminazione di aulico e quotidiano, di sublime e volgare, Musicano il grido della vita / le cicale alla controra /tra i fiori della carota e nella coraggiosa scelta di mettere in scena un tabù: il cancro e la sua deriva psico-fisica.

Le microcalcificazioni maligne diventano una galassia nel petto che si nasconde fitta / nelle mie grazie in attesa della tormenta.

Altrove, la zoomata espressionistica ricostruisce i dettagli di una sala operatoria. Le lampade scialitiche si trasfigurano in Un grumo di stelle, gli occhiali telescopici favoriscono la metamorfosi dei chirurghi in lucertole che aprono le costole al sole. Il corpo si reifica in una pigna.

Nulla viene risparmiato dal graffio audace di Cellaro. Le radiazioni x e y che si infrangono sullo scoglio nel tentativo di frantumarlo e la corrente che entra nelle vene. Nemmeno gli effetti devastanti della cura sono taciuti: Sono sfiorita nella stagione secca…i desideri volati.

La brevitas fulminante di questi scritti, frutto di un empito inderogabile e di un’urgenza assillante, è, tuttavia, il risultato della lima. Ogni singola scelta lessicale rivela un meticoloso setaccio e una quête musicale. Più dissonanza dodecafonica che sinfonia. Più suoni aspri e canini, in un infinito gioco di consonanze, dipingono l’inconsueto diapason di uno dei componimenti più intensi: È irregolare il battere/ del tallone sul marciapiede. In un altro testo, una cascata fonosimbolica di sibilanti accompagnano il tema del tempus fugit, Scopro il confine/ora che il passo cambia /ed il silenzio morde le membra.

Per connotare l’abbandono e l’indifferenza, l’autrice ricorre a termini pertinenti all’area semantica del freddo. Ho trovato un fiotto di freddo/ solo ghiaccio /duro / tenace. Vana la speranza di sbrinare…  il gelo dell’indifferenza. Unico consolatorio rifugio, il silenzio.

O forse no. Qualche spiraglio si allarga alla vista dei colli della sua terra col tappeto di grano / già indorato avvolto sul mare o dei campi già mietuti … mentre l’aratro li prepara /per nuove semine. Esiste evidente un legame viscerale con il paesaggio natio che offre un tetto e un riparo dal male e dalla sofferenza.

La complessità, la ricchezza tematica e l’ordito poetico giustificano la motivazione per cui il canzoniere Canti al crepuscolo sia stato segnalato nella sezione inediti del Premio Mario Luzi 2023.

Lascia un commento