Osservando il «Grattacielo», l’inedita milanese di Ada De Judicibus Lisena

di Vito Davoli

Ada de Judicibus Lisena ci regala questa

volta una lirica inedita di particolare pregio dal titolo Grattacielo, che ha già riscosso particolari consensi in ambito di critica letteraria fino ad una traduzione in tedesco (Wolkenkratzer) sulla rivista “Pomezia Notizie” del Dicembre 2020. Si tratta di una lirica intensa e – mi sia consentito – commovente quando si approfondisce lo scandaglio dei moti del cuore dietro ogni singola parola e ogni sua composita architettura di legami e significati.

Non imposteremo qui una lettura critica del componimento ma ci si permetta sottolineare alcuni spunti che inevitabilmente sono “esplosi” prepotentemente alla lettura di questi versi: è uno sguardo al cielo e apparentemente questo sembra rimanere per tutto il componimento, con tutto ciò che guardare al cielo può comportare sia in senso figurato che allegorico. Non solo uno sguardo generico ma quello sguardo che, guardando a un grattacielo, inevitabilmente porta quasi a percorrerlo immaginificamente fino alla cima.

Misurato e calibrato, com’è proprio della cifra stilistica della poetessa, e con un ritmo lento e cadenzato che apre lo spazio e pare annullare il suono («ambisco attingere il silenzio») privilegiando il senso di una vista immaginifica, appunto, capace di “costringere” prepotentemente il lettore a guardare con gli occhi della protagonista. Quella misura che chi scrive, come tanti lettori e critici di Ada, non possono non sottolineare nell’eleganza espressiva e nella minuziosa scelta della parola perfetta ma che, spesso differentemente dalla critica mainstream, considera tanto più efficace quanto più in contrapposizione ai sentimenti intensi e profondi che di quello stile sono il contenuto: si immagini il cantare la morte con una melodia dolce e romantica o il cantare l’amore con suoni tragici e cupi. È in questa scelta stilistica che ci affascina tutta la potenza lirica di Ada De Judicibus Lisena e Grattacielo ci pare esserne una sorta di apoteosi.

 

Grattacielo

 

Quanto cielo, quanto cielo per me!

Io sono una casa che colloquia con le nuvole

al puro spazio apro mille finestre

dò asilo agli uccelli di vetta.

Quanta gloria di cielo intorno a me!

Io tendo all’assoluto.

Aspiro agli astri,

degli astri ambisco attingere il silenzio

penetrare il mistero.

 

Su questo grigio groviglio urbano,

sul viale sui tetti che sovrasto,

come un diamante solitario

dono agli astri lo specchio delle mie vetrate

e li rifletto, effondo luce.

 

Sono un inno ascensionale

il mio giardino pensile è un sospiro di verticalità.

 

Uno sguardo al cielo, dicevamo, e la prima strofa è una vera e propria Ouverture che introduce ai veri significanti del componimento: «Quanto cielo, quanto cielo per me!» non “su di me” o “attorno a me” ma “per me” racchiude già tutta la tensione dinamica che si esprimerà nei successivi «tendo all’assoluto», diventerà poi «Quanta gloria di cielo attorno a me!» e si compirà nel finale «inno ascensionale» disegnando un movimento verticale che con quel «sui tetti che sovrasto, come un diamante solitario […] effondo luce» riuscirà a raffigurare un’immagine così raramente moderna, contemporanea da sembrare essere messi di fronte ad una vera e propria scena cinematografica.

Con la prima strofa verrebbe banalmente da pensare al noto “M’illumino d’immenso” di Ungaretti che in realtà risulta utile piuttosto a sottolineare come qui la dinamica dei significanti, rispetto alla stasi del primo, disegna un percorso che non è solo “M’illumino” ma “Rifletto”: un’andata e ritorno, un restituire alla fonte che trova conferma nell’immagine dello specchio, particolarmente presente e cara a tutta la produzione poetica di Ada. E la poesia di Ungaretti si intitola “Mattina”: è nel prosieguo della lirica di Ada che invece si scopre che «aspiro agli astri»: è un cielo notturno quello a cui si guarda. È un cielo scuro quello con cui si dialoga e a cui si tende. E poi ancora: «Il mio giardino pensile», «I tetti che sovrasto», «Il grigio groviglio urbano». L’inevitabile solco letterario nel quale allora potrà collocarsi la lirica, rivelerà inevitabilmente un’altra potente chiave di lettura che, dall’Iliade a Leopardi («Dolce e chiara è la notte e senza vento, / e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti») passando anche per Novalis («Fu misurato alla luce il suo tempo; / ma il regno della notte è senza tempo»), fa del notturno il momento dell’agnizione circa la verità della condizione umana.

Tema decisamente foriero di interessanti prospettive che lasciamo a critici e lettori più capaci di noi. E alla fine tutto torna: ritorna anche il suono che è melodia, perfino inno che accompagna il riflesso e restituisce alla fonte non solo la propria proiezione ma se stessa in un cerchio perfetto che si chiude in una strana, pacata serenità che ha tutta la commozione (tanto dell’autore quanto del lettore) della consapevolezza del proprio essere ed essere umano; del proprio percorso di vita e di vita terrena che Ada riesce a rendere compiutamente proprio quando meno i piedi toccano terra: «Sono un inno ascensionale / il mio giardino pensile è un sospiro di verticalità».

 

(Pubblicato in L’altra Molfetta, XXXVII, aprile 2021)

 

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