“Ho sparato a un uomo a Reno”

di Alberto Dati

 

Torno ad ascoltare il Live at Folsom Prison di Johnny Cash, su vinile Columbia del 1968, etichetta rossa. E’ un disco che mi ha segnato la vita, nel quale periodicamente sento il bisogno di immergermi. Negli anni nei quali l’America era equamente divisa tra missioni lunari, guerra del Vietnam, Woodstock e contestazione giovanile, Cash decise di intraprendere un tour nelle patrie galere, per incontrare faccia a faccia quelli che sentiva essere i destinatari naturali delle sue canzoni: gli underdogs, i diseredati, i carcerati, gli emarginati, gli indiani, le persone di colore, i colpevoli e i condannati a morte. Era l’America che aveva da sempre raccontato, e per la quale valeva la pena suonare. Era anche convinto che fosse necessaria alla nazione una riforma radicale del sistema carcerario, che così com’era “non serviva a nessuno”. E questo tour avrebbe anche rinfrescato l’immagine dell’artista, oscurata dalle dipendenze dalla droga, dai problemi legali e dal divorzio con la prima moglie, per introdurla ad una nuova generazione di ascoltatori. Insomma Cash era a tal punto controcorrente da essere osteggiato anche dal suo management e dalla sua etichetta, ma riuscì a mettere in pratica il suo progetto.

Così, in un gelido gennaio del 1968, Johnny Cash, la sua nuova e discussa fidanzata June Carter e i Tennesse Three suonarono nella sala mensa della prigione del carcere di massima sicurezza di Folsom, California, davanti a una platea di detenuti: non era la prima volta, ma stavolta lo show sarebbe stato registrato. La sera precedente il gruppo di musicisti aveva ricevuto in hotel la visita dell’allora Governatore della California, Ronald Reagan. Mi colpisce che i destini sembrino incrociarsi, nella grigia e ignota monotonia di una sperduta cittadina carceraria. Ma la cosa che in questi giorni mi ha colpito di più è stata l’aver appreso una notizia nuova circa la produzione del disco: Bob Johnston, colui che registrò il concerto nella prigione californiana, aggiunse successivamente delle voci in studio, degli applausi, alcune grida. Cosa che all’epoca era solito farsi negli Stati Uniti, e che a noi oltreoceano è arrivata sotto forma delle ridicole risate sotto i serial TV americani degli anni ’70: niente di strano, quindi.

 

Insomma metto su il disco, il concerto inizia. Cash dice la frase di rito “Hello, I’m Johnny Cash” e la band comincia a sparare il riff del primo brano, Folsom Prison Blues, una sua hit di qualche anno prima. Il chitarrista Luther Perkins affetta l’aria con i suoi fraseggi sincopati, e la canzone si srotola con il suo tipico incedere lento. E’ la storia di un ergastolano che sente il treno fischiare fuori dal carcere di Folsom e ripensa alla sua vita passata, agli amici lontani, al suo delitto. Johnny Cash sta suonando Folsom Prison Blues nella prigione di Folsom: è il momento perfetto, per l’artista è la chiusura di un cerchio iniziato nel 1953. Ad un certo punto Cash pronuncia il famoso verso “I shot a man in Reno, just to watch him die” (“Ho sparato a un uomo a Reno solo per vederlo morire”). Il pubblico va in visibilio, schiamazzi e fischi a non finire dalla platea investono il palco. Ma in realtà non andò proprio così: fu appunto Johnston sotto questa frase ad aggiungere in studio applausi e l’urlo di un carcerato. Falsificazione del documento storico, sicuramente: alla Columbia non erano interessati all’integrità della registrazione, ma piuttosto all’effetto che essa potesse produrre sugli ascoltatori. Alla Columbia avevano ragione: fu un effetto dirompente, e ancora oggi quel disco è uno dei live rock più venduti in assoluto, anche e soprattutto per l’interazione fra palco e platea. Cash parla col suo pubblico, ride, fa battute, tratta male le guardie e ironizza sul sapore del bicchiere d’acqua che gli porgono, suscitando l’ilarità degli astanti. Arriva addirittura ad interrompere l’esecuzione di una ballata per rispondere a una battuta pungente di un detenuto. Incredibile, vero?

 

Sì, incredibile, ma il problema fu che alla fine del 1968 Bob Kennedy fu assassinato proprio in California. Che c’entra un concerto country con l’assassinio di un Kennedy? C’entra, perché alla Columbia si affrettarono a ristampare una nuova edizione del disco, eliminando appunto quelle grida dopo la frase incriminata, che secondo i dirigenti incitavano alla violenza gratuita. Il che fa luce su due cose: in primo luogo sul ruolo importantissimo che la musica ha (aveva?) negli Stati Uniti, sul ruolo sociale che le si attribuiva. E in secondo luogo sul puritanesimo latente in questa operazione di eliminazione di un grido che – in fin dei conti – era solo un artificio di studio. Come se quell’urlo rimosso potesse rimuovere anche la violenza nella società, le infiltrazioni della CIA, le ombre dei governi di Lyndon Johnston e poi di Nixon, le profonde contraddizioni della società americana. E del resto artificiale era anche il punto di vista dell’autore della canzone: Cash non era mai stato in galera se non per qualche bravata da rock star da sempre impenitente, anfetaminica e comunque  ingenua.
Sarebbe interessante ora scovare una copia del ’69 di quel vinile, e vedere se quel grido non c’è più davvero. La mia copia appartiene infatti alla prima tiratura, 1968 – e non ho mai trovato in circolazione copie posteriori con cui confrontare l’originale. Ma mi faccio bastare questa edizione e me la godo: alzo il volume, cerco di immaginarmi seduto tra le file di carcerati e mi metto ad ascoltare the one and only, Johnny Cash.

Lettura consigliata
: “Johnny Cash: The Autobiography“, with Patrick Carr – Mass Market Paperback 1998.

 

Folsom Prison Blues su YouTube – https://youtu.be/AeZRYhLDLeU

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