Poeti documentaristi (parte 3)

La soggettiva del cacciatore in San Martino di Carducci

di Italo Spada

 

Se è vero – come sostiene Aldo Grasso[1]– che le immagini “odorano”, quelle poetiche emanano particolari effluvi. Per averne conferma basta rileggere “San Martino” di Giosuè Carducci. Odore di mare, di vino, di cacciagione arrostita; odori che la nebbia fa suoi e distribuisce per i vicoli e le viuzze del borgo.

La poesia inizia con una panoramica del paesino di montagna. Per rendere meglio l’atmosfera, il poeta utilizza la sfumatura dei contorni – il cosiddetto flou – che nel cinema si ottiene applicando alla macchina da presa un filtro particolare. Il passaggio dalla collina avvolta nella nebbia al mare agitato è reso, subito dopo, tramite una dissolvenza incrociata: alla prima immagine, che va gradualmente sparendo, si sovrappone la seconda fino a prenderne il sopravvento. Nella seconda strofe (dal 5° all’8° verso) entra in funzione la steadycam. L’operatore (o il poeta regista) si carica in spalla la macchina da presa per aggirarsi a suo piacimento per le vie del borgo. L’effetto di immagine traballante non solo non disturba (come avviene, per esempio, in certi film di registi appartenenti al “Dogma 95” votati all’uso esclusivo della “handycam“), ma ha addirittura la funzione di vivacizzare il messaggio de l’anime a rallegrar. E’ un occhio curioso che fruga ogni angolo, che spia i particolari, che è combattuto tra la voglia di esplorare e la paura di apparire invadente nella vita privata d’altri.

Protagonista assoluto resta il borgo. Scelto dal poeta come meta di gita fuori porta, appare in tutta la sua bellezza campagnola. E Carducci non sa resistere alla tentazione di “riprendere” immagini utilizzando una tecnica prettamente cinematografica. Nella terza e nella quarta strofe si intrecciano campi e controcampi: dalle cose guardate (come il fuoco acceso e lo spiedo), al personaggio che guarda (il cacciatore). E ancora: dal personaggio che guarda (sempre il cacciatore), a ciò che guarda (lo stormo di uccelli).

Nell’ultima strofe, infine, Carducci fa ricorso ad un altro espediente filmico: la soggettiva. Il lettore (ma si potrebbe dire anche “lo spettatore”) non vede solo ciò che si vede e che è realmente inquadrato, ma anche quello che il cacciatore immagina di vedere. La macchina da presa non si sostituisce solo agli occhi del personaggio, ma penetra anche nella sua fantasia e diventa oggetto di descrizione psicologica. Gli uccelli che vanno e vengono sono come i pensieri. E’ un accostamento tipicamente filmico che invita il lettore ad entrare, tra le  nubi rossastre da una parte e gli uccelli neri dall’altra.

 

[1] Aldo Grasso, Linea allo studio, Bompiani, Milano 1989, pag. 244

 

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