Euridice aveva un cane di Michele Mari, Einaudi

di Gianni Antonio Palumbo

 

Euridice aveva un cane di Michele Mari è un libro geniale, “straziante e profondo” (come lo definiva Cordelli) in una sua modalità peculiare, pregna di ironia e autoironia, le quali si riverberano in una scrittura ubertosa che potrebbe apparire neodannunziana, ma non lo è. Il lussurreggiare dello stile aulico vive spesso della sproporzione – ora comico-realistica ora satirica – tra l’oggetto della narrazione e gli strumenti linguistico-lessicali adoperati a connotarlo. Ne deriva un costante senso di straniamento. I materiali tragici sono deaurati e quelli comici, innalzati attraverso il dono della parola, finiscono col rivelare il loro fondo di universale tragicità.

Ne viene fuori un lavoro in cui si sorride, ma è un riso amaro quello che coglie il lettore nell’attraversamento delle novelle. Il tasso di letterarietà è altissimo, in un citazionismo continuo di cui un esempio evidente è I palloni del signor Kurz. L’ambientazione è quella di un collegio maschile gestito da asfittiche Signorine, in cui a far aumentare la temperatura adolescenziale, più che l’interesse verso l’altro genere, è realisticamente l’innamoramento per il gioco del calcio. All’orizzonte si profila però una sorta di nemico invisibile ma spietato, il signor Kurz; nel momento in cui i palloni superano il limes, la “muraglia” che delimita il giardino dell’uomo, egli li trattiene per non restituirli più. È in questo contesto, in cui il pallone di cuoio è vagheggiato in descrizioni ai limiti dell’ecfrasi, si innesta l’avventura di Bragonzi, che cerca di operare il recupero dei numerosi palloni involati (o semplicemente volati, perché calciati, via) nella misteriosa proprietà dell’uomo. L’esortazione ai compagni perché si compia l’impresa è accompagnata da un’orazion picciola ch’è palese parodia di quella dell’Ulisse dantesco; l’intera descrizione della serra in cui sono rinchiusi i palloni è sapidamente modellata sull’ariostesco vallone delle cose perdute. Quando poi si giunge al massimo della sproporzione, con il recupero del topos dell’ubi sunt, con i palloni dissolti come le neiges d’antan delle villoniane dame, s’innesta una riflessione più profonda, in cui parlare di palloni significa anche parlare delle generazioni di giovani vite che in essi si sono avventurosamente sublimate: “E molti anni dopo, quando tutti quei bambini sarebbero scesi nelle loro tombe, quel pallone sarebbe stato più vivo di loro, e sarebbe stato la memoria delle partite di un tempo”. E il fondo serio dello scherzo si rivela nitidamente. Il giardino di Kurz assume quindi i connotati di quell’Ade da cui si tenta l’impresa dell’impossibile recupero. Non mancano anche le citazioni biblico-evangeliche, con il compagno che doveva vegliare sull’impresa addormentatosi per la stanchezza. E guardiani dormienti ritornano anche nell’Agliopàpine, d’intonazione più seria ma non meno grottesca nel finale, in cui emerge l’assoluta vanità delle prove di comando che il protagonista, mentre si interroga sulle caratteristiche del perfetto leader (come generazioni hanno fatto) persino sotto il profilo linguistico (adottare un lessico arcaizzante con elementi di tecnicismi militari?), non sa come il suo ‘regno’ si stia sgretolando non per i nemici che incombono al confine, ma per il più prosaico perpetuarsi dei meccanismi di produzione e distruzione di cui erano parte integrante i leopardiani leoni del Dialogo della Natura e di un Islandese.

Ogni racconto si incastona bene nel congegno del volume. Il motivo dell’iniziazione ritorna in La legnaia, rivelando la propria natura spesso di bluff ingannatore, con corollario di dotti (e ghiotti) mostri conoscitori dell’antropologia e degli scritti di Frazer, Jung o Lévi-Strauss. I protagonisti sono spesso figure ai limiti della sociopatia, dal protagonista di Tutti vivemmo a stento a quello, spassoso e tristissimo, del Cinema, cui repelle qualunque forma di contatto con gli altri esseri umani, eccezion fatta per le fantasie di violenza. Fantasie che vengono grand-guignolescamente messe in atte dall’irresistibile filologo serial killer, che, dopo essersi affannosamente adoperato per la ricostruzione della volontà autoriale nella redazione di testi ed essersi anche cimentato con le acrobazie reader-oriented, decide di divenire egli stesso, con le sue gesta criminose, ‘testo’ necessitante di interpretazione. Curioso il finale in cui, in un macabro gioco di cui l’esito appare scontato, coinvolge, pena la morte, nell’inchiesta di senso un ladro malcapitato, autoscodellatosi sul suo ‘piatto’ come vittima sacrificale. E che dire del protagonista di Tutto il dolore del mondo che, in un pesce agonizzante nella boccetta in vetrina in un negozio, riconosce una riedizione della sabiana capra dal belato ‘fraterno’ al dolore del poeta? Così, in una frenetica corsa nel tentativo di salvare l’animale, scoprirà quanto è vero ciò che dichiarava Elisabetta Dentice di Frasso (“la sofferenza degli animali è una delle tragedie maggiori del mondo che la maggior parte delle persone non degna né di un pensiero né di un sentimento”, cfr. Schlippenbach Dentice di Frasso, Una vita che giunge dal passato, trad. di F. Pedrocchi, Milella, Galatina 2007, p. 45), ma darà prova egli stesso di una personalità dissociata, nell’accanirsi con sadica violenza sui propri aiutanti mancati. E nel finale sarà colto dal sospetto “che tutto il dolore del mondo si sia ormai impossessato” di lui.

Il racconto più intenso resta, a nostro avviso, quello eponimo. Incontriamo un altro protagonista che rifugge i contatti con i coetanei (i vituperatissimi Baldi) e si rifugia nella comfort zone dell’amicizia con l’anziana vicina Flora, la quale, in un processo di rovesciamento parodico (ma in fondo serio) diviene l’Euridice di turno. Euridice che non vive di vita propria nell’immaginario dell’io narrante, ma esiste in quanto proprietaria di un cane, Tabú (da notare l’accento acuto, in linea con il carattere ‘antico’ del microcosmo della donna). È proprio questo cane l’oggetto del desiderio del giovane; la sua identità è definita in chiave paradossalmente comico-mitica nella mescolanza di racconti che Flora riferisce e che probabilmente debbono essere ricondotti non al Tabú di quel momento, ma a un cane precedentemente allevato dalla donna e chiamato con lo stesso nome (forse addirittura ad altri ancora…). “Anzi, da qualche particolare sospettavo che certi racconti si riferissero a un terzo cane, o addirittura un quarto, chissà, forse c’era una successione di Tabú che giungeva fino all’infanzia della Flora, a un mitico Ur-Tabú)”. Eppure in questa sgangherata riconduzione del mito a una chiave del tutto quotidiana, affiora ancora una volta la melanconia per il tempo che scorre, falcia gli idilli e riconduce le care piccole persone del nostro caro piccolo mondo, spesso delimitato entro confini strettissimi (la Scalna del protagonista), in una dimensione ch’è senza ritorno. O forse no? “Basta che io non mi volti, che rimanga così ancora un po’, a carezzare questo bel sasso piatto che rilette la luna. Al primo fruscio alle mie spalle, saprò che sono arrivati”.

 

 

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