Cafarnao Caos e miracoli  (Titolo originale: Capharnaüm)

Regia: Nadine Labaki,

Con: Zain al Rafeea, Yordanos Shifera, Boluwatife Treasure Bankole, Kawsar Al Haddad, Fadi Youssef, Nadine Labaki

Libano, USA, 2018. Durata: 120’

 

di Italo Spada

 

Il cinema serve a capire meglio la natura umana. Tutti conoscono la realtà, è sotto gli occhi di tutti. Ma guardarla attraverso gli occhi di un bambino straordinario come Zain al Rafeea è un’altra cosa.” A dirlo è Nadine Labaki, regista libanese di 45 anni, con Cafarnao al suo terzo lungometraggio dopo Caramel (2007) e E ora dove andiamo? (2011).

Zain è un ragazzino dodicenne che sopravvive in una baraccopoli di Beirut. L’inquadratura iniziale, dall’alto e in verticale, è un invito a precipitare per 120 minuti nel labirinto della sua vita tra sporcizia, fame, povertà, ignoranza, fratellini che piangono, adulti insensibili e sfruttatori.  Il titolo non ha nulla da spartire con la Cafarnao della Galilea dove Gesù iniziò a predicare e a compiere miracoli, ma sta per “accumulo disordinato di oggetti”. La precisazione arriva anche dal sottotitolo che mette insieme caos e miracoli. Molto caos, in verità, e pochi miracoli. Per vedere il vero miracolo bisogna attendere la fine del film e leggere una seconda dichiarazione della regista (che ha creduto opportuno entrare nella vicenda anche come attrice ritagliandosi il ruolo di avvocato difensore di Zain) fatta in conferenza stampa: “La nostra soddisfazione oggi è che tutti i bambini che hanno partecipato al film sono salvi e vanno a scuola. Anche solo per questo fare il film ha avuto senso.”

Dare senso a un film significa non preoccuparsi troppo degli incassi e invitare gli spettatori a riflettere. Non si va al cinema solo per evadere dalla noia e dai problemi che ci assillano. E, a tal proposito, Cafarnao  e la Labaki sono in buona compagnia. Altri film e altri registi hanno coraggiosamente affrontato argomenti attuali e scottanti come quelli dell’infanzia maltrattata, delle spose bambine, della difficoltà di vivere nella povertà e nell’ignoranza, dei diritti dei bambini, dell’invisibilità di chi non è stato mai denunciato all’anagrafe, del destino dei migranti, del delicato ruolo dei genitori, del cattivo esempio degli adulti. Più che ai fratelli Dardenne e a François Truffaut il pensiero va all’iraniana Marziyeh Meshkini di “Piccoli ladri” (2004), all’indiana Deepa Mehta di “Water-Il coraggio di amare”(2005), ai registi vari di “All the Invisible Children” (2005), alla yemenita Khadija Al-Salami de “La sposa bambina” (2014). E ancora una volta è il caso di insistere su due errori comuni da evitare: pensare che quanto viene narrato è solo un film e credere che certe cose da noi non avvengono. Un film si vede con gli occhi e si analizza con la mente. Non tutti i registi “inventano”; al contrario, la maggior parte di essi guarda la realtà e ne trae ispirazione. I bambini di Cafarnao, vittime di una guerra assurda, esistono veramente.  Zain si chiama così anche fuori copione, non è un attore ed è stato “pescato” dalla regista per strada, sporco e affamato. E non è di certo un’eccezione. Ciò che accade nel Libano accade in troppi altri posti della terra e i fratelli di Zain hanno mille altri nomi.

La cronaca narra di una spaccatura tra critici quando, a Cannes 2018, venne assegnato a Cafarnao il Premio della Giuria. Il motivo? Siamo di fronte, si è detto, ad un film eccessivamente retorico ed estetizzante, una furbata. Estrapolo alcuni commenti: “La cineasta libanese ha capito come fregare le emozioni” (Cineforum); “Alla Labaki sembrano non interessare le storie e i personaggi che racconta e nemmeno il contesto sociale del suo Libano, se non come mezzo per commuovere lo spettatore” (La rivista del Cinematografo); “L’espressione “Poverty Porn” è a volte applicata con eccessivo moralismo. Vedi ora il caso di Cafarnao” (La Stampa); “Nella seconda parte si concede troppo al patetico” (la Repubblica); “Film discretamente ricattatorio” (Il Messaggero).

Criteri e pareri personali da rispettare, ma che rispolverano vecchie e mai risolte diatribe: quando si può dire (se si può dire) che un film è aderente o meno o alla realtà? A prescindere dalla macchina da presa e da come i registi riprendono certe immagini, non si può negare che ghetti, bidonville, favelas e periferie delle periferie del mondo esistono e che, tra la melma e nell’indigenza, sopravvive un miliardo di persone. Questi sono numeri, non retorica; e a dirlo non è la Labaki, ma l’ONU. La cifra comprende troppi Zain che, nonostante l’età, sono costretti a fare ciò che dovrebbero fare i grandi: proteggere i fratellini, fare di tutto per evitare che le sorelle vengano vendute, ribellarsi. Non si diventa genitori solo generando; bisogna saper far crescere i propri figli e sacrificarsi per loro. L’adolescente Zain, fugge di casa, intraprende un viaggio alla ricerca di giustizia, ingaggia una battaglia disperata e impartisce lezioni di paternità prendendosi cura di un bambino clandestino e ancora da allattare che è rimasto solo al mondo. Pensava, come dirà, “di diventare un uomo bravo, rispettato ed amato” e, invece, finirà in prigione. Sconterà la pena, ma avrà il coraggio di chiamare in giudizio i suoi genitori e di rivolge loro la più amara delle accuse: averlo condannato all’infelicità mettendolo al mondo. Già: il processo che fa da cornice all’intera vicenda narrata in flashback. Ho immaginato di assistervi in carne ed ossa, curioso spettatore tra tanti. Sarà, ma non ho notato nessuna retorica nel grido di allarme di Zain. Noto, piuttosto e purtroppo, ancora troppe mani sul catino di Pilato. E la cosa, sinceramente, mi disturba più delle polemiche sulla validità o meno di un film.

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