Kybarion di Cosimo Lerario, Secop edizioni 

di Maria Pia Latorre

 

Nelle mani di chi le usa con maestria le parole creano percorsi espressivi di grande suggestione e, tra di essi, le narrazioni sono senza dubbio quelle che coinvolgono in modo più immediato, tragittando, con poche sicure manovre, il lettore verso l’universo della straordinarietà ancor prima  che egli se ne renda conto. È ciò che accade aprendo per la prima volta Kybarion.

Sappiamo bene che un buon libro è interprete primario del nostro vivere, elemento fondamentale nel sistema sociale e culturale di appartenenza, ricchezza dinamica capace di muoversi tra arte e natura esprimendone in modo sempre originale le potenzialità. Ed anche in questa cornice Kybarion ha tutte le carte in regola per stare al mondo.

L’autore, Cosimo Lerario, nell’introduzione, intitolata previdentemente ‘Istruzioni per l’uso’, ci avverte sornionamente che si tratta di una storia, “nulla di più, nulla di meno”, avendo fatto precedere in esergo la condivisa considerazione che “l’unica strada che conduce alla Conoscenza è quella dell’Esperienza”.

Ma allora che storia è questa? Difficile di primo acchito inquadrarla, ma certamente così genuinamente introdotta da far scattare nel lettore la potente molla della curiosità.

Tra le ragioni della scrittura vi è anche quella di chi scrive, di chi, appunto, vuol chiarirsi, attraverso itinerari prima mentali e poi verbali, di sé e del mondo (la cosiddetta scrittura terapeutica, ma sfido a trovare uno – un solo – scrittore che non tragga giovamento e benessere dalla sua arte!), sicuramente motivazione fondamentale di questo racconto.

Talvolta la forza vitale che anima l’agire umano si ribella all’inevitabilità delle trasformazioni del tempo,  e in Kybarion Cosimo Lerario dialoga col tempo, lo interroga, lo vuol stanare, ne coglie le diverse dimensioni, ne ingaggia una lotta.

Ma andiamo per ordine.

Il libro nasce da una spinta interiore che si avverte forte, difatti l’impianto narrativo è affidato in prima persona ad un narratore interno, immediatamente catapultato in una situazione straniante, in cui la sensorialità è potenziata al massimo, essendo il protagonista in un luogo buio, in cui procede a tentoni, metafora di uno stato di mancanza di conoscenza che si fa sete.

Nulla è casuale in questo thriller, e ogni scena, ogni situazione, ogni parola è lì perché necessaria in un perfetto ingranaggio funzionale allo sviluppo dei fatti, ma anche al percorso iniziatico che via via  si dispiega.

Le descrizioni di persone e luoghi sono rapide ed efficaci, poiché è risaputo che non si può approfittare dell’attenzione del lettore per più di tre minuti, ma in questo caso l’azione è talmente serrata da bilanciare perfettamente alcune meticolose descrizioni necessarie al procedere della fabula. Entrando nella storia, sembra di rivivere le stesse emozioni suscitate da Eco ne ‘Il nome della rosa’.

Una scrittura itinerante che si snoda con leggerezza, ritmo e ironia; precise le descrizioni che, oltre al pregio della maestosità architettonica, diventano incredibilmente narrative, portando il lettore a credere di essere lui lo scopritore dei fatti,  a partire da apparentemente irrilevanti riferimenti.

Ma le coordinate storico-geografiche, determinanti per seguire la trama, non intaccano minimamente, nel lettore, la percezione dei rapidi passaggi temporali, e rappresentano un capace piano d’appoggio per tutto l’edificio della storia, così come risulta fondamentale l’elemento geografico, che diventa, esso stesso, protagonista, al pari degli altri personaggi, col rimando improcrastinabile all’atavico rapporto di filiazione dell’uomo nei confronti del suo territorio e al profondo senso di appartenenza vissuto nella sua carnale ancestralità.

Cosimo Lerario è medico, e ciò gli consente di fornirci descrizioni accurate, con estrema dovizia di dettagli rispetto a ciò che accade interiormente in primis all’io narrante-protagonista, come anche alla donna che lo guiderà, e a tutta la serie di personaggi che entrano nella storia, restituendoci tratti di vividezza e realismo che catturano il lettore.

In Kybarion sembra riecheggiare l’intrigante narrazione dello scrittore e neurologo Oliver Sacks, che, nella sua ponderosa quanto affascinante opera, ha raccontato molti dei misteri della mente umana attraverso la descrizione e lo studio dei suoi ormai famosi casi clinici. Sacks ha dedicato interi volumi alle allucinazioni, alle ricerche sull’occhio della mente, alle alterazioni psichiche e sensoriali, aprendo squarci di ricerca allo studio della psiche umana. Allo stesso modo Cosimo Lerario appare scientifico e rigoroso nel renderci partecipi dei moti della mente del protagonista, ma è altrettanto sapientemente bravo ad alleggerire là dove necessario.

Nei dodici capitoli del romanzo si compie un viaggio plurisensoriale, storico, cabalistico, filosofico: “Shabbetai è innanzitutto un grande studioso delle Antiche Conoscenze. Mediante le quali cerca a sua volta di provare a compiere la più difficile e disperata impresa possa tentare l’Uomo: accedere alla Verità”. Ardito l’obiettivo intorno al quale l’Autore mostra di sapersi destreggiare con ampia competenza e arguzia, tra scienze, geografia, storia, filosofia, antropologia, esoterismo, teosofia, arte; un romanzo alla Umberto Eco, dunque, come si accennava.

Anche la terribile lotta che il protagonista ingaggia con se stesso è fortemente credibile perché è la stessa che ognuno di noi vive nella vita reale, quando ci si deve districare nella selva dell’io cosciente e agente rispetto ad un inconscio pronto a saltare fuori e ghermire, una sorta di contesa manicheista tra dogmatismo e libertà dell’individuo.

Grande maestria ed uso sapiente e forbito non solo delle tecniche di scrittura giallista, dunque, ma uso esperto del climax, della modulazione del linguaggio, che, sempre molto accurato, passa, con estrema disinvoltura dai toni alti e colti, con rimandi a numerose lingue antiche e moderne, al linguaggio popolare, sfumato in colorite fioriture gergali.

Altro elemento fondamentale è una solida presenza femminile, costante e per certi versi anche contraddittoria, che accompagna il protagonista. È  la donna l’emblema di bellezza per eccellenza, altro tema, questo, presente nel libro, ed è proprio nella figura muliebre che l’Autore ne esalta lo splendore ed è a lei che ne affida la guida attraverso un viaggio nella spazio-temporalità.

Difatti il tempo sfiorisce la bellezza, viceversa la bellezza trionfa sul tempo, in un’eterna lotta senza vincitori né vinti; ed anche a questo assistiamo nel romanzo, grazie alla presenza di Fatma, che resta icona e mito dell’eterno femminino.

Strettamente legato al tema femminile è quello della magia, che più volte riaffiora nel romanzo, attraverso figure di donne che sanno leggere il destino dell’umanità. Nel raffronto tra protagonista e figure femminili sicuramente il protagonista non è un antieroe, anzi, egli incarna l’eroe dei buoni sentimenti, della purezza, dei valori.

Tuttavia la virile ruvidità dello scrittore è consapevole della drammaticità degli effetti del Κρόνος, il tempo cronologico, ma egli vive quest’avventura entusiasmandosi e abbandonandosi totalmente al suo bizzarro procedere, incantato dalla magia che aleggia intorno. Pertanto tutto il romanzo è penetrato da un vigoroso opporsi al tempo e alla mancanza di conoscenza, da una fiera forza che non si accascia mai su se stessa e che ha da proferire sicuramente ancora nuove parole; ed è la forza primordiale della Parola, che cerca immortalità e si riconcilia con αἰών, il tempo-Aiòn, il tempo dell’eternità.

Un libro che senz’altro appassionerà e che lascerà traccia nel cuore di ogni lettore. Un libro che ogni Barese dovrebbe conoscere perché  Kybarion è anche una meravigliosa dichiarazione d’amore alla città.

 

 

 

 

 

 

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