“Ciò che resta con sé” di Rita Greco

di Alfonso Guida

 

“Tenersi stretta la gioia / delle incompiute”, recita l’incipit di una poesia di Rita Greco. E questa incompiutezza dell’oggetto e del soggetto, delle cose e dell’essere, permea del suo illudente bagliore di soglia l’intera, rocciosa escursione di versi cantati in un rovescio di sé, all’esterno, guardando la morte, che si sconta vivendo, da un davanzale. L’incompiuto non è solo una presa d’atto dell’interminabile processo evolutivo e involutivo della res che resta nascosta come un’ombra, un animale tra siepe e tana, ma si intreccia anche a una nostalgia della potenza. Qui si procede a ritroso. Si vuole rasentare il guscio dell’uovo originario, la sua carica eversiva, la sua condensazione, sintesi del Tutto. L’io è un lume minuscolo che si allinea alle luci pulviscolari del circondario cosmico e antropico.

Rita Greco scrive per stare luministicamente dentro le cose e sta dentro le cose aspettando la deflagrazione, lo scoppio del seme, la fioritura del germoglio. Su ogni sillaba aleggia un’aria di giardino dove a prevalere sono le aiuole delle “Composite”, una specie botanica impronta di compostezza e complessità, sorgente puntiforme che si estende in un ricorso dolente a ciò che già si possiede, a volte un tu indefinito e trascolorante, a volte la sera del canto solitario “nella culla dolce del chissà”. Tutto il paesaggio dell’incompiuto appare, minuzioso e raccolto, nello spazio di un lumen-limen, in una fiammella di preghiera, in un lirismo di stagioni dove tutto è e resta in gestazione.

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