Alla radice della… radice

di Gennaro Solferino

 

Atene è flagellata dalla peste e i suoi abitanti chiedono aiuto all’oracolo di Apollo. Il responso è un’esortazione a costruire un nuovo altare in onore del dio, che, però, dovrà avere misure particolari: nasce così il “Problema di Delo”, uno dei più celebri enigmi matematici della storia.

Sulle origini del cosiddetto “Problema di Delo”, quesito geometrico-matematico le cui molteplici soluzioni si sono rincorse per quasi due millenni, circolano numerose versioni. La più nota è ambientata ad Atene, o, secondo altre versioni, a Delo, forse nel V secolo a.C., durante una furiosa pestilenza; l’altra, molto più antica, a Creta all’epoca di Minosse nel II millennio a.C. L’ampia escursione cronologica della genesi del problema, ne conferma la trasformazione in mito per la sua risaputa rilevanza, che purtroppo possiamo solo intuire indirettamente.

Dunque ad Atene il morbo infuria, evento frequente a causa delle carenze igieniche della città, che non dispone di una vera rete fognaria, ed è costipata dal punto di vista abitativo, con case affacciate su stretti vicoli. Un’immensa incubatrice batterica, pronta a esplodere a ogni incremento del caldo, della popolazione o della carestia, e sempre con altissima letalità. Stranamente, però, di interi nuclei familiari, che coabitavano in promiscuità, alcuni guarivano e altri neppure si ammalavano, smentendo così l’idea già serpeggiante del contagio, ma avallandone un’altra. Veder cadere al proprio fianco i consanguinei restando sani, ricordava il veder cadere i commilitoni adiacenti restando illesi, colpiti a caso da frecce piombate dall’alto, e suggerì analoghi dardi mortiferi, scagliati da un Apollo adirato per qualche offesa. Pertanto, aggravandosi la moria, non restò che impetrarne la giusta penitenza all’oracolo di Delo, tempio al dio particolarmente caro, nella sua isola natale.

 

Una richiesta modesta

La deputazione ateniese, partita trepidante, tornò, dopo pochi giorni, trionfante: Apollo, infatti, per porre fine alla strage voleva soltanto che gli duplicassero l’altare, un semplice cubo di pietra. Fu grande la gioia per una richiesta tanto modesta e immediata la sua soddisfazione, un altro cubo di lato doppio. Ma, poiché le morti non cessavano, vi fu una nuova supplica, che ottenne il medesimo responso: Apollo voleva sempre un altare di volume doppio e non ottuplo, come si era stupidamente fatto raddoppiando il lato [2³= 8]. E questa volta la deputazione tornò avvilita e scoraggiata: qual era il lato da dare a un cubo perché fosse di volume doppio di uno noto?

A Creta, invece, stando a un antico poeta tragico, re Minosse, vedendo la costruzione della tomba per il figlio Glauco, un cubo di pietra, e trovatala giusta di forma, ma angusta di volume, ne ordinò il raddoppio, moltiplicando per due il lato. Decisione criticata perché determinava un cubo ottuplo di quello di partenza.

In una lettera a Tolomeo III, uno dei direttori della Biblioteca di Alessandria, Eratostene di Cirene (276-194 a.C.), fornisce un ragguaglio su entrambe le leggende. La missiva forse comunicava l’invenzione del mesolabio, lo strumento per la soluzione analogica del problema, poiché la ricerca della migliore dal punto di vista matematico durò ancora a lungo, tanto che se ne trova traccia persino tra le carte di Leonardo da Vinci!

Venendo al problema propriamente detto, in base alla nostra attuale definizione, altro non fu che la ricerca di un metodo per estrarre una particolare radice cubica e, più in generale, una qualsiasi radice cubica, operazione all’epoca di estrema complessità, al punto che soltanto pochissimi dotti ne venivano a capo. Plausibile che tanti cervelli vi si cimentassero per mero spirito speculativo? Vitruvio, pur non fornendo alcuna risposta all’interrogativo, rievocò il problema nella sua opera (il trattato De architectura), menzionando fra i risolutori Archita di Taranto ed Eratostene: “Ciascuno

di loro è pervenuto, per vie diverse, alla soluzione del problema che Apollo a Delo aveva chiesto nel suo responso: costruire un’ara cubica, il cui volume fosse doppio della sua al presente; solo così quelli che erano nell’isola sarebbero stati liberati. Archita vi pervenne per mezzo dei semicilindri, ed Eratostene, tramite il mesolabio”.

 

Per i dotti e gli studiosi

Lo strumento inventato da Eratostene, stando alle notizie di cui disponiamo, sembra in breve diversificarsi in due distinte tipologie, pur insistendo entrambe sulla stessa logica geometrica. La prima, più sofisticata e precisa, constava di tre telai rettangolari scorrevoli in un’apposita guida e perciò fra loro sovrapponibili, che, collocati nella esatta posizione, fornivano il valore richiesto mediante una sottile corda secante. Strumento delicato e di precisione, adatto perciò agli studiosi e ai dotti.

La seconda, invece, era costituita da un regolo variabile a F, una sorta di grosso calibro a corsoio a due becchi, fisso il superiore e mobile l’altro, ma senza alcuna gradazione, né sul corpo, né sui becchi. Per ragioni imperscrutabili, ma sicuramente assurde, essendo ben nota la sua totale avversione verso tutti i congegni e gli strumenti pratici, questo secondo mesolabio fu attribuito a Platone, e al Dürer poi, pur tradendo proprio per sua semplicità d’impiego un’origine alessandrina, dove la scienza lavorava di concerto con la tecnica.

Non volendo entrare troppo nel calcolo analogico, per i curiosi della materia può essere interessante il sintetico ragguaglio sul funzionamento dei due strumenti supportato dalle ricostruzioni virtuali e dai relativi schemi geometrici.

Sebbene entrambi i mesolabi funzionassero sulle similitudini di tre triangoli rettangoli, il fornire la soluzione solo spostando il becco su di un crocifilo, rendeva l’impiego del secondo tipo notevolmente più semplice, ideale per qualsiasi officina e laboratorio, a differenza del primo, idoneo per la sola ricerca.

La domanda circa il loro impiego, a questo punto, s’impone ancora: se il mesolabio a telai poteva in qualche modo tornare utile agli studiosi, cosa ne avrebbero fatto i tecnici di quello a becchi? E, più in generale, a cosa poteva loro servire di conoscere la radice cubica di un numero? Ovviamente nessuno ci ha tramandato l’esplicita risposta al quesito, ma questa, tuttavia, ha lasciato sufficienti indizi per essere individuata con sufficiente certezza.

Da tempo i tecnici impegnati nelle costruzioni militari, in particoalre di navi e artiglierie, avevano stabilito di adottare per modello canonico il prototipo che, in seguito a innumerevoli modifiche e perfezionamenti, avesse ostentato prestazioni superiori alla media. Pertanto le dimensioni di tutte le sue componenti sarebbero state pedissequamente ripetute, ricavandone così la certezza del funzionamento ottimale, mentre, per realizzare esemplari maggiori o minori, si sarebbe dovuto adottare il criterio seguito dagli scultori di rispettare le esatte proporzioni dell’originale.

 

Costruzioni modulari

Ma per costruire una balista destinata a scagliare, con la medesima forza, una palla di peso doppio di quella canonica, quali proporzioni e quali dimensioni si sarebbero dovute rispettare? Ed essendo in pratica costruzioni modulari come i templi, con modulo pari al diametro della matassa elastica, quale diametro occorreva dargli?

Empiricamente, come ci ha tramandato Filone di Bisanzio, da tempo si era trovato che il valore del diametro, misurato in dita (19 mm) e moltiplicato tre volte per se stesso, corrispondeva al peso della palla, espresso in dracme (4,32 g) e incrementato di un decimo: quindi una balista destinata a scagliare una palla del peso di 100 dracme, poco meno di mezzo chilo, doveva montare due matasse elastiche di circa 8 dita, ovvero del diametro di 80 mm. Tradotto nell’attuale enunciazione, il diametro delle matassa doveva essere pari alla radice cubica del peso della palla, con la tolleranza di un decimo. In formula:

d= 1.1

d=diametro in dita

p=peso in dracme

Ecco quindi la stringente necessità all’origine del calcolo della radice cubica e, più ancora, data l’allora vigente ignoranza, di uno strumento per ricavarla analogicamente, il mesolabio.

 

Scuole di pensiero

Va, infine, osservato che i due mesolabi descritti, sebbene derivanti dal medesimo ragionamento geometrico, sembrano essere l’esito di due diverse scuole di pensiero, di cui forse si rintracciano le peculiarità nelle diverse maniere d’indagine e, forse, pure nelle diverse motivazioni. Gli Alessandrini, infatti, si avvalevano per i loro studi geometrici del disegno proporzionale, tracciato su carta di papiro mediante riga e compasso, derivandone perciò errori modesti, limitati allo spessore delle linee. Un metodo pratico, di tipo analogico, destinato a fornire preziosi supporti alla coeva tecnologia.

Di tipo logico, invece, il metodo degli studiosi greci, che, non disponendo del costoso papiro, si avvalevano di schizzi puramente esemplificativi, non in scala, spesso tracciati sulla sabbia (Archimede fu ucciso mentre era intento a uno studio del genere). Una differenza a prima vista marginale, ma foriera, in realtà, di vistose diversità: paradossalmente, infatti, mentre dai disegni in scala si ottenevano direttamente risultati approssimati, ma alla portata di tutti, da quelli esemplificativi se ne ottenevano di straordinaria precisione, ma a beneficio di un ristrettissimo ambito di dotti. Utili agli impieghi tecnici i primi, alla sola conoscenza scientifica i secondi.

Prende così ad accentuarsi la divisione tra scienza pura e applicata, tra filosofi meccanici e vil meccanici, che si protrarrà fin quasi l’età contemporanea.

Gli studiosi greci ragionavano su schizzi esemplificativi tracciati spesso sulla sabbia

 

Ma come funzionavano?

Nel mesolabio a telai, in corrispondenza dello spigolo superiore sinistro del primo telaio, stava un perno la cui distanza dal regolo di base – a – corrispondeva alla grandezza di cui si voleva conoscere la radice cubica, misurata con l’unità di misura – b –, un segmento sul lato destro del terzo telaio, compreso tra un altro perno e la base. Mantenendo tesa una fune tra i due perni, quando i punti di intersezione tra le diagonali del secondo e terzo telaio con i lati interni del primo e del secondo telaio coincidevano con la fune, i loro segmenti – x – e – y – compresi fra le intersezioni e la base, erano i due medi proporzionali fra – a – e – b – e – y – era pure la radice cubica di – a –, risultato ricavato dalla proporzione fra i tre cateti minori di tre triangoli rettangoli simili, secondo questi passaggi:

a:x = x:y = y:b x=y²/b a/x=y/b a

b/y²=y/b

posto b=1

a=y³ y=

Nel mesolabio a F si procedeva, invece, tracciando preliminarmente su un piano due rette perpendicolari fra loro (gli assi cartesiani erano ancora di là da venire): portando il becco mobile sull’asse verticale in modo da fargli staccare un segmento – a –, compreso tra l’intersezione e l’origine, e sull’asse orizzontale un segmento – y –, fra l’intersezione del suo spigolo interno e l’origine, facendo coincidere lo spigolo interno del becco mobile con l’asse verticale, il suo becco staccherà sull’asse orizzontale un segmento – b –, compreso fra l’origine e l’intersezione, che postolo uguale a 1 rendeva – y – la radice cubica cercata.

a:y = y:x = x:b

y²= x a

y= ab : y²

per a=1

y=

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