Cuore di Edmondo De Amicis: Detrattori e sostenitori

di Cosimo Rodia

 

Cuore di Edmondo De Amicis è un romanzo sui generis, che mescola almeno tre generi letterari: quello diaristico, quello epistolare e il racconto breve. Tre generi intrecciati e composti che seguono le scansioni temporali di un anno scolastico, in cui Enrico Bottini annota sul suo diario gli avvenimenti più importanti che si verificano da ottobre a luglio.

Il romanzo inizia con una trovata: il padre rinviene il diario del figlio e lo lima. Dopo quattro anni il giovane autore riprende in mano il suo diario, lo lavora ulteriormente, vi aggiunge qualche tassello di cui ha ancora memoria, ed ecco confezionato un libro buono per i fanciulli “tra i nove e tredici anni”.

Il capolavoro di De Amicis si apre col consuntivo del primo giorno di scuola. E dietro a questa pagina c’è un carico di verità psico-pedagogica straordinario: l’ansietà di lasciare il mondo delle vacanze con i suoi ritmi e i suoi diversivi, per entrare in un nuovo ambiente. Enrico, infatti, dopo il biennio cambia classe, compagni e maestro.

Oggi si parlerebbe di traumi; De Amicis, invece, lontano da conoscenze psicologiche, ci lascia una pagina leggera ma intimamente animata dell’inquietudine tipica di adeguarsi ad un nuovo ambiente e familiarizzare con esso. Una rappresentazione, dunque, umana che tempo e latitudine non possono cambiare. Forse anche in questi sottili passaggi risiede la forza di un’opera che è riuscita a superare la prova del tempo.

Il nuovo maestro è Perboni, che già il secondo giorno di lezione riesce a fare breccia nei sentimenti dello scolaro: «Sentite. Abbiamo un anno da passare insieme. Vediamo di passarlo bene. Studiate e siate buoni. Io non ho famiglia. La mia famiglia siete voi. […]. Voi dovete essere i miei figlioli. Io vi voglio bene, bisogna che vogliate bene a me. Non voglio aver da punire nessuno. Mostratemi che siete ragazzi di cuore» (Martedì 18 ottobre). Facendo leva sui sentimenti il buon maestro apre subito un varco nel cuore di Enrico che può scrivere: «Anche il mio nuovo maestro mi piace, dopo questa mattina».

È mieloso e paternalistico il maestro Perboni? Per i detrattori di Cuore lo è; ma mi chiedo cosa abbia originato, di contro, una scuola in cui il maestro è un funzionario-burocrate di griglie, valutazione, tabulazione, programmazione…

Con la semplicità, questa sì, invece, Perboni tenta di far leva sui sentimenti, che permettono di costruire un rapporto produttivo  e sincero; e i ragazzi che hanno antenne sensibili a questi temi, immediatamente raccolgono e rispondono con slancio.

Già nelle prime pagine si presentano altre variabili del libro; venerdì 21 ottobre Enrico racconta la disgrazia accaduta all’alunno Robetti, rimasto azzoppato per aver salvato un bimbo che stava per venire travolto da una diligenza. Robetti, figlio di un capitano, diviene un eroe, quasi sulla scia del padre, che essendo militare ed ufficiale, sicuramente doveva esserlo. Quella di Robetti è la prima di altre disgrazie che saranno narrate nel corso dell’anno, tanto da costituire una variabile.

Potrebbe avere un significato metatestuale, la sequela di tragedie? Forse potrebbe significare una presenza misteriosa e imperscrutabile che affianca la vita di ciascuno.

In altre pagine ancora troviamo temi che hanno fatto di Cuore il libro dell’integrazione e strumento decisivo nel promuovere il sentimento di Unità nazionale. Paradigmatica mi sembra la pagina del 22 ottobre: in classe di Enrico arriva ‹‹un piccolo italiano nato a Reggio di Calabria››. Enrico riporta le parole del maestro: «Vogliategli bene, in maniera che non s’accorga di essere lontano dalla città dove è nato; fategli vedere che un ragazzo italiano, in qualunque scuola italiana metta il piede, ci trova dei fratelli».

A queste parole scattano subito gesti di solidarietà tra i ragazzi. E’ una bella pagina che muove le corde dell’umanità e della comunione.

Molti critici[1] considerano Cuore un libro conservatore ed aristocratico; bugiardamente finto. Intanto diciamo che l’aspetto educativo, in pagine come quelle del 22 ottobre e simili, non è mai sfumato, ma sempre espresso in maniera chiara e franca.

Fatta l’Italia (l’unificazione aveva appena venticinque anni) bisognava fare gli italiani. E per questa finalità il libro è un punto fermo, come lo potrebbe essere anche oggi, considerando le varie spinte centrifughe.

Nel diario di Enrico, poi, importante è la presentazione dei compagni di classe. E qui troviamo un quadro eterogeneo, che oltre a dar conto dell’articolata composizione sociale, è una gamma completa delle tipologie umane di ieri, come di ogni tempo.

Tra i compagni di classe c’è Garrone, ‹‹il più grande della classe, testa grossa, le spalle larghe››. È tanto forte quanto buono; è l’emblema dell’altruismo e della generosità verso il prossimo e verso coloro che hanno bisogno. È gaio e a nulla ambisce. C’è Nobis, l’incarnazione della superbia; Votini (che si toglie “i peluzzi dai panni”), esempio dell’invidia; Nelli il piccolo gobbino; il “muratorino”; Stardi il “grugnone” lento nella comprensione ma caparbio e attento alle parole del maestro, tanto che alla fine riesce a migliorare; C’è Precossi, il piccolo dagli occhi tristi e buoni, figlio di un fabbro ferraio alcolizzato e violento; c’è Franti il bullo impenitente, incolto, burbero, cattivo, primitivo; c’è Derossi, il modello, figlio di una buona famiglia, colto, intelligente, capace di autocontrollo e di buone relazioni con gli altri. E’ il tipico figlio che tutti vorrebbero avere.

Nel libro, poi, si succedono pagine in cui si esprime forte il senso di solidarietà verso i bisognosi; è il caso del gesto di carità che la mamma di Enrico compie nei confronti dell’erbivendola, madre di Crossi, il ragazzo dal braccio morto (venerdì 28 ottobre).

Sono pagine emotivamente intense, per quanto molti critici le considerino lacrimevoli ad arte. Per lo scrivente, invece, sono una tipica testimonianza di carità cristiana; la mamma di Enrico mi sembra l’esempio della carità vissuta senza ostentazione e sempre attenta a non ferire la suscettibilità dell’altro. Anche il padre ha le stesse preoccupazioni della madre, quindi dal diario mi sembra emerga forte un imperativo morale, che il sostegno a chi ha bisogno lo si offre in silenzio e nella massima discrezione.

Nel diario si inframmezzano delle lettere scritte ora dal padre, ora dalla madre e dalla sorella; tutte, seppur trattando argomenti e temi differenti, rappresentano l’esaltazione della norma, del buon comportamento e del modo corretto di relazionarsi con gli altri. Nelle lettere l’aspetto precettistico è chiaro ed evidente e mai velato. Non c’è spazio per l’interpretazione, ciò che è bene è detto in maniera inequivocabile.

Ogni mese il diario è chiuso da un racconto, che pur con diversi temi, funziona strumentalmente a formare l’uomo di una società giusta, amorevole, solidale, operosa.

Il primo è: Il piccolo patriota padovano, in cui troviamo un ragazzo che rifiuta il denaro da chi offende il suo Paese; è un racconto che evidentemente esalta il valore della Patria e dell’orgoglio nazionale. Anche i successivi racconti battono lo stesso tema. Nel celeberrimo La piccola vedetta lombarda il ragazzino, arrampicatosi sull’albero a spiare il nemico, muore colpito da una fucilata.

Un racconto tanto celebre quanto criticato, perché considerato troppo bellicista e pervaso da cinismo verso i fanciulli. L’ufficiale, infatti, quasi avrebbe considerato materiale di scarto il ragazzo, per averlo esposto senza le dovute precauzioni. Ma con uno sguardo da lontano, mi sembra di poter dire che narrativamente importante sia il tragico atto finale; un eroe è più facile che diventi un paradigma; dunque la morte mi sembra più una scelta funzionale al raggiungimento dello scopo, che non un auspicio. E sulla stessa linea troviamo Il Tamburino sardo.

I racconti sono sostenuti, in questo fine didascalico, da alcune lettere del padre, che anch’esse hanno fatto gridare allo scandalo pedagogico. Ad esempio proprio il racconto del Tamburino sardo dà la stura al padre di Enrico di fare la tirata sull’amor di patria, in cui compare il passo forse più esagerato e sopra le righe del libro; l’ingegner Bottini dice: «Se un giorno io vedessi te tornar salvo da una battaglia combattuta per essa, salvo te, che sei la carne e l’anima mia, e sapessi che hai conservato la vita perché ti sei nascosto alla morte, io tuo padre, che t’accolgo con un grido di gioia quando torni dalla scuola, io t’accoglierei con un singhiozzo d’angoscia, e non potrei amarti mai più, e morirei con quel pugnale nel cuore» (martedì 24 gennaio).

Il passo è decisamente forte, anche se non scandalizzerebbe se fosse letto in termini generali; infatti, generalizzando, potremmo dire che è da condannare qualsiasi gesto di vigliaccheria; e facendo un passo in avanti, ancora, potremmo domandarci: di fronte a fatti delinquenziali si può essere omertosi? Direi che alla fine, depurate le esagerazioni, potrebbe rimanere il messaggio, buono per ieri come per oggi. Ma al di là di possibili giustificazioni, questo aspetto tematico (l’amor di patria), rimane il più vulnerabile del libro. In effetti, per creare lo spirito patriottico De Amicis delinea, con vistose forzature, i tratti di alcuni eroi dell’Unità italiana: Garibaldi, Mazzini, Cavour, Re Umberto. Presta decisamente il fianco, ad esempio, il passo su Cavour: «è lui che mandò l’esercito piemontese in Crimea a rialzare con la vittoria della Cernaia la nostra gloria militare…» (mercoledì 29 marzo); storicamente sappiamo che il fine della spedizione militare fu diverso!

Come statica mi sembra la conclusione di questa summa ideale, concentrata nella lettera del padre dal titolo “Italia”, in cui la Bandiera tricolore è un vessillo benedetto a cui bisogna immolare il proprio sangue se necessario: «darò il mio sangue e morrò, gridando al cielo il tuo santo nome e mandando l’ultimo mio bacio alla tua bandiera benedetta» (martedì 13 giugno). Sono passi ridondanti se si pensa che oggi la vita è in cima a tutti i valori terreni.

E ritorniamo alla successione regolare dell’anno scolastico. Una lettera della madre per la ricorrenza del 2 novembre è l’occasione per invitare Enrico a riflettere e ripensare ai defunti.

Nelle lettere, abbiamo già detto, i principi sono espressi direttamente senza metafore; e anche in Giorni dei morti è espresso chiaramente il principio secondo cui siamo ciò che gli altri ci hanno permesso di essere; quindi, la conclusione è che bisogna pensare ai morti con gratitudine. È un bel segno di civiltà che ribadisce come ogni cosa la si edifica partendo dalle radici. Il carbonaio e il signore è una pagina tipica che esalta l’interclassismo. Nobis offende Betti che è figlio di un povero carbonaio. Quando il litigio coinvolge i genitori, il padre di Nobis impone al figlio di chiedere scusa e di stringere la mano al lavoratore cencioso. Il maestro dice alla scolaresca: ‹‹Ricordatevi bene di quel che avete visto, ragazzi, … questa è la più bella lezione dell’anno» (lunedì 7 novembre)››. Siamo alla pedagogia dell’esempio e del rispetto del prossimo che permettono di edificare una società pacificata e solidale.

La lettera di novembre scritta dal padre a Enrico contiene, invece, l’esaltazione dell’amore e della devozione da portare alla mamma. La culla dell’amore deve essere sempre rispettata e amata, pena la perdita della considerazione. L’impalcatura di questo imperativo poggia su un ricatto morale; dice il padre: «Io pensai a tua madre quando, anni sono, stette chinata tutta una notte sul tuo piccolo letto, a misurare il tuo respiro, piangendo sangue dall’angoscia e battendo i denti dal terrore, ché credeva di perderti…[…] vorrei piuttosto vederti morto che ingrato a tua madre» (giovedì 10 novembre).

Sono troppo dure le parole di De Amicis? In verità mi sembra che ribadiscano solo quanto l’amore materno sia incondizionato e che moralmente ci si aspetta una risposta in termini affettivi da parte del figlio; se un feedback, nel rapporto madre-figlio, non dovesse esserci, significa che la patologia ha preso il sopravvento.

In Cuore è la madre la misura delle virtù morali e civili. Ed è la mamma che invita Enrico (quindi tutti i bambini del mondo) ad amare il prossimo e ad essere caritatevoli.

Tra la pletora di figure, quella su cui potremmo soffermarci a riflettere è quella di Coretti, il bambino che vende la legna e fascine, accudisce la madre malata ed è felice. Coretti sembra l’esempio che dovrebbero seguire i tanti sfaccendati d’oggi.

Anche la figura del Direttore mi sembra ben disegnata; anch’egli sommandosi agli altri insegnanti, presenta una scuola piegata sui ragazzi per meglio ascoltarli, creando le condizioni di un luogo familiare, amorevole e disponibile. C’è paternalismo, per alcuni critici anche affettazione, ma mi sembrano i connotati del docente vero che dedica la vita alla scuola e all’educazione; una figura che mal si adegua, evidentemente, a? una dimensione aziendale, in cui l’insegnante è scaduto a rilevatore di aspetti quantitativi ed esterni, dimenticando spesso di potenziare la comunicazione affettiva e la capacità di comprendere le dinamiche psico-relazionali dei ragazzi.

Ma le parti più accattivanti del romanzo rimangono i passi in cui si esprime la solidarietà umana e quelli in cui si manifestano i momenti quotidiani e le vicende umane tout court.

Molti, presi da furore ideologico, hanno criticato nel libro Cuore la riproposizione della supponenza di classe. È stato preso di mira, ad esempio, il passo che richiama la visita del muratorino, Antonio Rabucco, il muso di lepre, a casa di Enrico. L’ingegnere invita il figlio a non pulire il divano che il ragazzo ha sporcato di tufo, per non mettere in difficoltà il compagno. Cosa fa l’ingegnere? Certamente tre cose: esalta il rispetto assoluto per il lavoro; rispetta la condizione economica dei più deboli; si premura a non far pesare la differenza sociale. Per i detrattori invece l’ingegnere assume quell’atteggiamento tipico dei ricchi verso i poveri.

Nelle pagine del diario si succedono i quadretti di vita quotidiana, in cui i compagni di classe sono sempre i protagonisti e decisamente meglio centrati. Infatti, Enrico presenta il leone Garrone, pronto ad intervenire contro le ingiustizie; il caparbio Stardi; la fierezza, nel dolore, di Precossi, che quantunque battuto dal padre ubriaco e vagabondo, non si lamenta e continua a studiare con abnegazione. E poi Nelli, il gobbino, e il mitico Derossi, il vero modello, bravo e per niente bacchettone. E Franti sfrontato, violento, irriverente.

Pagine in cui si alternano le vicende e i sentimenti umani; una pagina tipica potrebbe essere quella dedicata all’invidia, una tirata contro, perché considerata un vizio che «rode il cervello e corrompe il cuore» (mercoledì 25 gennaio).

E l’emulazione non è invidia. Enrico prova rincrescimento che Precossi abbia guadagnato una medaglia ed egli, nonostante tutti gli agi, neanche una. Non è invidia, ma emulazione, un sentimento che ha risvolti positivi e può spingere all’affinamento individuale; ovviamente, affinché si attivi questo processo, è necessario che ci sia una grande sovrastruttura morale.

Ci sono nel libro altre caratteristiche  presenti in più passi, come l’attenzione a non ostentare il benessere, per evitare di creare disagio nei meno fortunati. Sono passaggi detti chiaramente, probabilmente per essere trasmessi inderogabilmente nel comportamento di ogni giorno. E poi ancora l’assoluto rispetto per il dolore altrui. Mi sembrano principi importanti per una comunità solidale, con radici ben piantate nel cristianesimo. Questo sentimento fa pendant con chi soffre per vari motivi. È il caso del padre di Crossi, condannato a sei anni di carcere, mentre il figlio crede che lavori in America. Che fa il condannato? Ha rispetto del maestro; come a dire che dalla scuola passa il riscatto morale e sociale di un individuo. E che fanno gli altri attori sociali? Comprendono e riabilitano il signor Crossi dopo la pena scontata.

Ma la sensibilità di cui trasuda Cuore è verso il dolore tout court. È il caso della pagina dedicata ai “Ragazzi ciechi”. Il maestro dice agli alunni che sarebbero andati in visita all’Istituto per ciechi solo quando avrebbero capito la grandezza di quella sventura. È una commossa riflessione, delicata, profonda e senza tempo.

Così come testimonianza di sensibilità verso le disgrazie, ma anche verso il destino, è la morte di un ragazzino di “prima superiore”, compagno del fratello di Enrico. Un passo che può essere letto sempre sul doppio piano. Sia su quello sociologico, con il richiamo al fenomeno della mortalità infantile; sia sul piano della pietà umana di fronte agli accidenti della vita.

C’è la morte, ma ci sono pure le malattie deabilitanti, come nel caso della febbre del muratorino. (Sono questi i sentimenti superati?!). Oppure, le pagine in cui la madre di Enrico indugia sulla sofferenza dei bambini rachitici: bambini dai visi graziosi ma dai piedini rattrappiti e scorticati. O ancora quelle riferite alla Sordomuta.

Dunque, troviamo valori quali: la solidarietà, il rispetto del bisognoso, dei genitori, della dolcezza della mamma, l’amicizia, la reciproca solidarietà familiare espressa dalla sorella Silvia. E’ con l’acquisizione di questi valori che si forma l’uomo e si pongono le basi anche per una società più a misura d’uomo. Valori rafforzati e reiterati nel libro con gli altri racconti.

            Il piccolo scrivano fiorentino è un’altra celebre storia in cui il piccolo Giulio aiuta di nascosto il padre; ma per il lavoro notturno sonnecchia a scuola, non studia, regredisce e si ammala. Il padre ignorando le cause si disamora del figlio e si disinteressa finanche della sua malattia. Quando scopre, invece, che il figlio si sobbarca di nascosto parte del suo lavoro, si scusa e si ricompone il cerchio magico dell’amore familiare.

Giulio potrà essere considerato pure un paradigma d’altri tempi, ma rimane l’esempio della responsabilità e della solidarietà sincera e senza condizione, che si esalta al massimo grado nella famiglia.

Slancio verso il prossimo contiene il racconto Sangue romagnolo, in cui Ferruccio, pur scapestrato, per salvare la nonna paralitica dalla coltellata di un ladro, si prende un fendente e muore. Qui lo slancio affettivo giunge all’eroismo. O come L’infermiere di Tata, in cui Ciccillo, un ragazzo in cerca del padre, crede di trovarlo in ospedale in fin di vita, quindi l’accudisce. Dopo diverse notti di abnegazione, riabbraccia il vero padre, e ciò nonostante decide di continuare le cure al vecchio malato fino alla fine dei suoi giorni.

Un racconto che può sembrare svenevole, ma trasmette il senso del dovere verso i propri genitori, come anche il sostegno gratuito per chi soffre; vien da concludere che regalare un sorriso non costa denaro! Sono tanti tasselli che edificano un gran cuore.

Infine, il celebre racconto lungo Dagli Appennini alle Ande: una commistione di amore filiale, di patriottismo, di viaggio iniziatico. E’ un racconto oleografico in alcuni punti, che contiene frasi ad effetto e strappalacrime; ma al di là di alcuni dettagli, rimane il racconto di una grande avventura, un passaggio da un luogo ad un altro, un attraversamento verso una meta che è affettiva, reale, valoriale. C’è la contraddizione di una donna che parte lasciando figli e marito…; ma nel turbine della narrazione si disperde la mancanza della madre e l’attenzione si concentra sul viaggio di Marco, sulle sue peripezie e sui colpi di scena che s’avvicendano prima di raggiungere la meta.

Molti sono i pareri negativi su Cuore[2], perché la considerano un’opera ancorata al Risorgimento, pedagogicamente preistorica, superata dallo sviluppo della psicodidattica, localistica in quanto legata alla Torino della seconda metà dell’800, paternalistica con una visione sociale agganciata ad una fissità delle classi sociali.

Partiamo dal considerare due aspetti, attraverso i quali continuare ad analizzare il testo.

Il primo. Senza valori forti, con un loro radicamento nel sentimento, si potrebbe avere domani l’uomo maturo e socialmente equilibrato? C’è chi dice (D. Starnone[3]) che i vari Franti aspettavano una risposta alle frustrazioni e ai problemi relazionali; e disillusi sono stati allontanati dal sistema educativo. Ma sorge spontanea la domanda: l’integrazione selvaggia, con moltissimi sconti per alcuni, dà risultati? Stando alle risposte concrete mi sembra che certezze non ne abbia nessuno, dunque le verità dei pedagogisti che credono alla integrazione ad ogni costo, rimangono delle verità relative.

Secondo. Si afferma da più parti che in Cuore la Chiesa Cattolica è rimossa. Ora riflettiamo ad alta voce: si può credere che un diario-romanzo in cui si esaltano la bontà, la fratellanza, la solidarietà, la carità, la discrezione nella carità…, non sia cristiano? Certamente nel romanzo l’autore ha espunto la religione nella sua dimensione trascendente, che per un cattolico costituisce il punto di partenza da cui si diramano le varie bisettrici che riguardano l’agire umano. Ma in Cuore, pur senza nominarlo, pur senza sbandierarlo o ostentarlo, il cattolicesimo mi sembra cristallizzato nei valori esaltati, sicché il meno cattolico dei libri mi sembra quello che più di tutti difende l’essenza di quella religione che ha plasmato l’Europa e tutta la civiltà occidentale.

A fronte dei tanti detrattori, come mai Cuore è ancora pubblicato e letto?

Le risposte stanno nel fatto che Cuore ha la grande capacità, eccetto alcune pagine emendabili, di parlare di sentimenti, di appellarsi ad essi quale patrimonio del ragazzo di ogni latitudine.

Mi sembra che Cuore abbia fatto e possa continuare a fare appello a quella dimensione non razionale, contro cui si infrange il “bambino dei saperi” dei nostri giorni; e ancor più contro il bambino oggetto nell’epoca dell’utile e dell’economizzazione di ogni forma di vita.

I detrattori sono tanti e di un certo peso intellettuale: Gabriele D’Annunzio (1863-1938), Benedetto Croce (1866-1952), Benito Mussolini (1883-1945), Antonio Gramsci (1891-1937), Natalia Ginzburg (1916-1991), fino ad Umberto Eco (1932). Proprio il professore bolognese tra i tanti aforismi, scrive: L’elogio di Franti[4].

Per il semiologo italiano, Franti è un personaggio positivo perché rappresenta una voce fuori dal coro, un soggetto vero e anticonformista che non si omologa alla cultura dominante. Se Franti ride di fronte al maestro, ai funerali del re, nelle circostanze più patetiche è perché col riso mostra la sua estraneità a ciò che gli sta intorno, si oppone ai valori condivisi dagli altri personaggi.

Il cattivo non è allora Franti, ma lo sono tutti gli altri perché omologati e incapaci di capire il povero discolo a causa delle loro bende culturali. Eco nel comportamento di Franti rinviene una grande capacità rivoluzionaria, una grande capacità di critica e di autonomia rispetto alla rigidità e al moralismo della società.

Leggendo le ragioni dei detrattori di Cuore  e analizzando il disastro educativo che si perpetua oggi, si affollano una serie di domande che esprimo, metodologicamente, ad alta voce: come si redimere i bulli? Come si educano i Franti? Come si preservano i coetanei di Franti dalle violenze e dalle minacce di compagni prevaricanti? Si può continuare a battere a senso unico il sogno dell’inserimento, dimenticando le infinite variabili che intervengono nella formazione o nella devianza delle personalità? E l’inserimento passa necessariamente attraverso la permanenza nella classe? E, ancora, il pedagogismo “strabico” o troppo piegato sul “Franti” di turno, farebbe accrescere competenze e abilità pur in condizioni di emergenza relazionale? E una volta elargito il titolo di studio senza competenze, si sono poste le condizioni per una società di eguali, nel senso di aver garantito le pari opportunità, con la frequenza “coatta”? Molti sogni da cui, probabilmente, si originano i grandi pregiudizi verso Cuore. I tanti Franti vezzeggiati in nome del mito della rivoluzione, alla fine hanno originato disastri nell’istruzione; l’Italia occupa il venticinquesimo posto tra i trenta paesi più avanzati per capacità di lettura; ed essendo reale la forbice tra nord e sud, si può tranquillamente dire che il mezzogiorno d’Italia è in coda ai paesi più industrializzati. E intanto nella scuola si spende denaro pubblico pure per i ‘Franti’, che non solo non vengono recuperati (perché, probabilmente, ciò è competenza di altre istituzioni), ma seminano il bullismo ed innescano un normale processo di emulazione tra i coetanei, incoraggiati ancor più dalle mancate punizioni esemplari.

La migliore offerta di uguaglianza è dare a tutti, e principalmente ai figli delle famiglie più deboli, un’alta formazione sia nella qualità che nella quantità, perché se questa dovesse difettare, il figlio dell’industriale potrebbe recuperarla all’estero con la frequenza di vari master, il figlio del povero si terrebbe il titolo e la sua impreparazione. Dunque, di fronte a casi difficili e di mancato inserimento in classe e nella scuola, le decisioni devono essere puntuali ed inequivocabili, per evitare che il danno ricada sui più deboli.

Certo, nel libro Enrico, figlio dell’ingegnere Bottini, rappresenta potenzialmente il futuro uomo di successo e di rilievo sociale; ma non mi sembra che si dica allo Stardi di turno (il più modesto intellettualmente) che gli sia preclusa, pregiudizialmente, una strada per l’avvenire. Di fatto sarà così, ma non c’è una preclusione preventiva. Tra l’altro Enrico, figlio della buona borghesia, non vince nessuna medaglia di merito nel corso dell’anno scolastico; dunque? Non mi sembra che ci sia un senso reverenziale delle istituzioni verso i figli della classe dominante.

La presenza di figli di artigiani, di operai, di professionisti…, poi, è la rappresentazione di una realtà variegata, che politicamente ed eticamente potrebbe essere aberrante solo nel caso in cui si esaltasse una parte su un’altra; ma così non è.

C’è, questo sì, la rappresentazione di due estremi: l’asocialità di Nobis, aristocratico spocchioso, e il bullismo di  Franti; ma sono stigmatizzati nel romanzo entrambi come soggetti negativi, rispetto a cui il bravo ragazzo dovrebbe prendere le dovute distanze.

Dicevamo che l’opera certamente ha funzionato nell’ottica della formazione degli italiani. Dopo l’Unità d’Italia il 78% non sapeva né leggere né scrivere. Al Sud le punte toccavano l’91%[5]. Nel 1881 gli analfabeti sono il 62% della popolazione. Nel 1911 scendono al 37%; nel 1921 saranno il 27,3%.

Cuore viene scritto proprio con lo scopo di alfabetizzare e di diffondere valori comuni, puntando sulle ragioni del cuore anziché su quelle della “testa”. Come Pinocchio, il capolavoro deamicisiano rimane un romanzo formativo, pedagogico, valoriale, attraverso il quale si presenta un corredo che una volta acquisito avrebbe formato l’uomo socialmente inserito.

Troviamo in Cuore l’esaltazione delle cose buone e semplici, anche se a volte non mancano, come già rilevato, delle esagerazioni oleografiche o delle tirate patriottiche espresse con eccessiva enfasi. Cos’è dunque Cuore? Certamente un libro didascalico-educativo. E’certamente un libro con venature paternalistiche e patetistiche. E’ un libro in cui la retorica stucchevole dell’amore di patria e dell’italianità pervadono molte pagine… E su questi aspetti son cresciuti i detrattori che si sono moltiplicati a vista d’occhio.

Però,  tutto questo fardello di negatività non ha spinto in un cassetto il libro, come esempio di una letteratura del passato. Cuore, invece, continua ad essere letto, soprattutto fuori d’Italia, in particolare in estremo Oriente.

Schematizzando, possiamo rilevare almeno tre momenti importanti cristallizzati nel libro. Il primo è quello patriottico, il cui scopo è creare gli italiani, dopo aver costruito politicamente l’Italia. Le pagine che danno conto di questo momento, hanno personaggi e richiami a fatti storici spesso esagerati; a volte anche mistificati (è il caso di Cavour…). Il secondo momento è quello educativo, in cui si presentano i valori sociali, familiari ed individuali che una volta acquisiti pongono le condizioni di una società sana ed equilibrata. In queste pagine  emerge una quotidianità variegata colta nelle sue varie articolazioni e nelle sue problematicità. Un terzo momento è costituito dai racconti. Facendo leva sull’articolazione della storia, con i suoi movimenti interni e utilizzando l’avventura, si esalta ciò che nei primi due momenti è espresso in termini precettistici. Proprio l’impasto dei tre momenti mi sembra la formula vincente, che probabilmente continua ad avvincere.

Inoltre, il romanzo nel suo insieme riesce ancora a dar conto dei tipici movimenti dell’animo dei ragazzi, dei loro contrasti, dei loro sentimenti (d’indivia, di ammirazione, di superbia, di bontà), dei loro slanci affettivi e solidaristici tipici di un’età in cui timidamente si iniziano ad intessere le prime relazioni autonome con il mondo esterno.

Come ne esce un giovane, finito di leggere il libro? Credo che le corde del suo cuore escano “pizzicate”; guarderà il mondo sempre con la stessa purezza e con qualcosa in più in termini di consapevolezza e di tensione verso chi soffre, verso l’amico in difficoltà, verso i fratelli, verso i genitori. Gli eccessi letti riferiti alla bandiera, alla patria, ai padri nobili della nazione… rimangono, credo, come segni sulla battigia, cancellati dal gioco di piccole onde.

 

 

 

(Profilo già pubblicato ne LA NARRAZIONE FORMATIVA di Cosimo Rodia, PensaMultimedia)

[1] Per le schiere contrapposte di detrattori e sostenitori di Cuore dalla prima edizione ai giorni nostri, si veda: A. Nobile, Cuore in 120 anni di critica deamicisiana, Aracne, Roma 2009.

[2] Cfr A. Nobile, Cuore in 120 anni, cit.

[3] D. Starnone (1943) scrittore, giornalista e sceneggiatore; ha curato un’introduzione a Cuore.

[4] Cfr. U. Eco, Diario Minimo, Bompiani, Milano 2001.

[5] Cfr. S. Chistolini, Comparazione e sperimentazione in pedagogia, Franco Angeli, Milano 2001, p. 46.

 

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