Biografia – Studio

 Giustina, nel nome il destino

di Lucia Diomede

 

I Parte

Una delle prime donne che hanno esercitato la professione di giudice, forse la prima, è stata pugliese. Era di Trani e visse negli ultimi decenni del Quattrocento, morendo il 1502. Giustina Rocca, appunto, ci dice una singolare testimonianza storica, l’8 aprile del 1500 sedette nel Tribunale di Trani e, davanti ai suoi concittadini che erano accorsi per vederla e sentirla, esercitò le funzioni di arbitro in una controversia riguardante l’eredità di due contendenti, tra l’altro suoi parenti, e, dopo aver pronunciato in forza della legge vigente in quella città a quel tempo il lodo in lingua volgare, chiese ed ottenne di essere pagata per il servizio reso.

La cosa fu davvero straordinaria, e per diversi motivi. Innanzitutto, perché il lodo arbitrale fu pronunciato da una donna in un luogo ufficialmente deputato all’amministrazione della giustizia: per quel che se ne sa, è un episodio probabilmente unico. Inoltre, particolare non meno vistoso, il lodo arbitrale fu pronunciato in lingua volgare, ovvero in tranese, in un periodo in cui il latino era ancora, per così dire, la lingua ufficiale della giustizia, non solo in Puglia. In ultimo, cosa ancor più notevole, la giudice fu pagata per la sua prestazione giudiziale: la corresponsione di un compenso adeguato secondo le convenzioni dell’epoca attestava ufficialmente il riconoscimento professionale. Ora, se si pensa che, soltanto nel 1963, in tempi quindi molto più recenti, in Italia, è stato consentito l’accesso delle donne a tutte le cariche, magistratura inclusa, il fatto che una donna possa esser stata riconosciuta come giudice arbitro a tutti gli effetti nel lontano 1500 sembra quasi incredibile.

Dunque, come è stato possibile? Chi era Giustina Rocca? Come, dove e da chi abbiamo avuto notizia di quest’altra straordinarietà pugliese, di quest’altro monstrum Apuliae (in aggiunta a quello delle badesse mitrate di Conversano, di cui parlerò in un prossimo articolo). Quali sono state le condizioni storiche, sociali e individuali, che hanno reso possibile un tale fatto, in un momento, tra Quattrocento e Cinquecento, in cui, come vedremo, si dibatteva se la donna fosse fisiologicamente “capace” di esercitare un’attività giudiziale, o anche solo di formulare un pensiero razionale? Quali meccanismi storici sono occorsi perché un tale fatto si sia potuto verificare? E perché di un fatto così eclatante ne abbiamo sentito parlare poco o addirittura per niente? Perché abbiamo limitatissime fonti storiche?

 

La storia, le storie

Parto dagli ultimi due interrogativi, ovvero dal perché della scarsa notorietà di un fatto del genere e delle limitatissime fonti storiche. Un po’ di tempo fa, Joan Morris[1], una storica che ha studiato le fonti del lontano passato in controluce alla ricerca di indizi, di notizie riguardanti l’azione, l’attività delle donne in campi ritenuti di stretta competenza maschile (specie in quello religioso, scoprendo, o riscoprendo, cose davvero importanti), ha sottolineato che a volte la storia resta nascosta per l’insufficienza delle testimonianze storiche, perché non ne resta traccia né in documenti scritti, né nelle cose di ogni giorno che vanno perdute. Altre volte è la difficoltà di interpretare le lingue in cui le testimonianze sono state lasciate o l’ambiguità, la poca chiarezza delle stesse che danno adito a fraintendimenti. Altre volte ancora, è la scarsa conoscenza delle consuetudini sociali e storiche secondo le quali e nelle quali quelle testimonianze sono state codificate che porta fuori strada. Ma, Morris afferma che, purtroppo, nel passato ha agito anche, sfortunatamente, una preselezione dei fatti di cui lasciare traccia, che talvolta ha portato addirittura a uno sciente occultamento delle testimonianze, a causa di pregiudizi, convinzioni o tesi perseguite. Un atteggiamento che Morris ha notato già in Plinio il Vecchio, che nella sua Storia Naturale, raccomandava di sottacere l’operato delle donne (a proposito dell’attività delle donne-medico attive al suo tempo), perché quel che le donne facevano doveva essere discreto e impercettibile e non era il caso che dopo la loro morte ne rimanesse traccia. E questa posizione pregiudiziale si è mantenuta successivamente.

Ciò, ovviamente, non deve comportare la deduzione che le donne siano state inattive nei secoli o che non abbiano mai preso parte, direttamente o indirettamente, alla vita sociale. Anzi, studi sempre più approfonditi e acuti, stanno mettendo in risalto la capacità delle donne di infiltrarsi negli interstizi delle norme o delle consuetudini codificate, delle tradizioni accettate, per “fare cose” che erano loro interdette. Tale capacità è stata chiamata la “feminine agency[2], e rappresenta la capacità di azione, la possibilità concreta, pratica, per le donne, di agire in qualche modo per raggiungere i loro scopi, nonostante le proibizioni scritte e soprattutto non scritte, i ruoli, le consuetudini, di concepire e mettere in pratica azioni alternative, non previste dai canoni; interventi frutto di creatività, di un agire laterale, nonostante il sistema patriarcale, regolativo e asfissiante, nei confronti degli spazi fisici e mentali che le donne occupavano, avesse il compito di proibire tali attività e la stessa possibilità di pensiero dell’agency, della capacità di azione alternativa al potere. La agency, in realtà, caratterizza, tutti i gruppi subordinati al potere, e caratterizza il dinamismo delle relazioni tra potere, sottomissione e resistenza. La possibilità di azioni alternative, creative delle donne, nel lungo periodo in cui le strutture di potere le hanno relegate a un ruolo subordinato, la agency, è legata, paradossalmente, proprio a quelle strutture di potere che ufficialmente interdicono quell’azione richiedendo sottomissione; tuttavia la sottomissione non ne indebolisce necessariamente la capacità di azione del gruppo sottomesso. La agency oltrepassa gli obiettivi del potere; filtra, trapela al di là degli intenti dei potenti, ma allo stesso tempo è subordinata a / dipende da quel potere

L’esercizio della agency, quindi, non si trova nei precetti del patriarcato, cioè nel sistema ortodosso della gestione maschile della proprietà, del potere politico, della gerarchia sociale, ma nelle contraddizioni e nelle fessure dell’ordine patriarcale[3]. Quindi gli indizi delle azioni delle donne in campi ufficialmente interdetti è molto probabile che si trovino a margine delle fonti canoniche, come brevi cenni, o note, in discorsi di il cui scopo fondamentale è un altro, o in fonti minori, spesso dimenticate o irrimediabilmente perdute di cui si ha solo notizia dell’esistenza in tempi precedenti, come è successo proprio per Giustina Rocca.

Come ha fatto, quindi, Giustina Rocca, in un centro di non primaria importanza del Meridione d’Italia, in epoca precedente al Concilio di Trento, a esercitare ufficialmente e pubblicamente la funzione di giudice arbitrale nel luogo deputato a tale ufficio, ovvero nel palazzo del tribunale di Trani? Quale la sua agency?

 

Come, dove e da chi abbiamo avuto notizia di Giustina Rocca

La notizia della vicenda di Giustina Rocca[4] è in un libro scritto da Cesare Lambertini, (Trani 1473-1550/1551), dottore in utroque iure, ovvero sia in diritto civile che canonico, come si usava a quel tempo per i numerosissimi incroci di interessi tra i due territori giuridici. Lambertini, come avveniva per i giovani di buona famiglia che intendevano avviarsi alla carriera ecclesiastica o all’avvocatura, dopo i primi studi a Trani, si era addottorato a Padova e a Bologna (dov’era, tra l’altro, tradizione ammettere le donne alla frequenza e alla docenza universitarie, ma non all’esercizio della professione). Scelta la carriera ecclesiastica, Lambertini diventò Arciprete di Trani e poi Vescovo di Isola dal 1508.

Lambertini scrisse De Iure Patronatus[5], la cui prima edizione risale al 1533. L’opera, in latino, destinata a un pubblico di specialisti, ebbe vasta eco tra questi ultimi, tanto che fu ristampata nel 1572, 1573, 1584 e 1607 a Venezia, e si ebbero anche delle edizioni a Lione nel 1579 e nel 1582, e a Francoforte nel 1581 e 1608. Essa riguardava i diritti di patronato, ossia i rapporti tra coloro che fondavano e dotavano chiese e cappelle e le autorità ecclesiastiche: in essa si trovano una serie di importanti informazioni sulla vita tranese tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, tra cui anche la notizia dell’arbitrato di Giustina, con una particolare attenzione agli aspetti giuridici. L’autore dovette cominciare a scrivere quest’opera non molti anni dopo la morte di Giustina e in quest’opera spiccatamente giuridica e per specialisti, Lambertini trovò il modo di fare riferimento al suo “caso”. Il Lambertini, tranese anch’egli, peraltro, era imparentato con Giustina Rocca, ed è molto probabile che l’abbia conosciuta di persona. In una parte della sua opera in cui disquisiva se fosse ammissibile secondo le fonti giuridiche, la scuola della glossa e la casistica precedente che una donna potesse emettere un giudizio arbitrale, Lambertini precorse i tempi con una posizione molto aperta, condividendo e portando alle estreme conseguenze quelle posizioni che nel Rinascimento si dichiaravano a favore dell’istruzione delle donne (se pur limitandone l’utilità alla sfera domestica): egli era a favore dell’esercizio arbitrale da parte delle donne e lo giustificava dal punto di vista giuridico. Ad avvalorare con l’esperienza quanto affermato in punta di diritto, Lambertini citava, appunto, il caso della sentenza pronunciata da Giustina Rocca nel palazzo del Tribunale del Governatore di Trani. Il brano relativo a Giustina Rocca, qui di seguito riportato, è tratto dall’edizione veneziana del 1584:

Et temporibus nostris vidimus magnificam dominam Iustinam de Rocha de Trano, relictam magnifici militis domini Ioannis Antonij Palagani, in anno domini 1500. 3 indictionis, die 8 mensis Aprilis, pronunciasse sententiam arbitralem in palatio et tribunali magnifici domini tunc provisoris Tranensis pro Illustrissimo Ducali dominio Venetorum, civitatem Trani in pignus tenente a felicissima domo de Aragona,vicarii domini Ludovici Contareni, in quo quidem palatio universitatis tota penitus civitas confluit, ut videret tale monstrum mulierem in bancho sedentem pro tribunali, et sententiam vulgari sermone proferentem et causa erat sibi compromissa a nobilibus Angelo et Trosolina de Rocha eius nepotibus de tota hæreditate suorum parentum, ex quo prædicti erant consobrini, et lis erat ducatorum octo mille vel plus, et in maxima parte laudatum fuit contra Angelum, et quod plus est (lato laudo) convenire fecit dictum Angelum coram ipso provisore, ut solveret sibi tricesimam pro parte, sua, quæ secundum constitutiones regni arbitris debetur, et hæc sunt notanda in memoriam mirabilim dictæ dominæ Iustinæ, cum hæc et maiora fecerit mulieribus non spectantia.[6]

Ecco la traduzione di Beltrani[7]:

«Nei nostri tempi vedemmo la magnifica signora Giustina de’ Rocca, da Trani, vedova del magnifico milite signor Giovanni Antonio Palagano, nell’anno 1500, di terza indizione, agli otto di aprile, pronunciare sentenza arbitrale. Si era nel palazzo del Tribunale del magnifico signor governatore di Trani, Lodovico Cantarini, per l’illustrissimo ducale dominio dei Veneziani, che teneva allora in pegno dalla Casa d’Aragona la città di Trani. Nel palazzo, dunque, dell’Università, accorse quasi tutto il popolo per vedere tale miracolo di donna, sedere al banco del tribunale e proferire, in lingua volgare, la sentenza. La causa di arbitrato era a lei compromessa ed affidata dai nobili Angelo e Trosolina Rocca suoi nipoti. Si trattava dell’intera eredità dei propri parenti, ed erano cugini fra loro. Il valore della lite si aggirava intorno agli ottomila ducati e più. In massima parte la sentenza fu contraria ad Angelo e, ciò che è più notevole, l’arbitra, proferita la sentenza, fece convenire la parte soccombente innanzi allo stesso governatore, perché le pagasse, secondo le costituzioni del Regno, la trigesima di compenso, dovuta agli arbitri. I quali fatti sono da ricordare in memoria delle mirabili cose, compiute dalla detta signora Giustina, perché queste ed altre maggiori, aliene dalle donne, essa signora aveva oprate».

 (seguirà la II parte)

 

[1] Joan Morris, The Lady was a Bishop, The Hidden History of Women with clerical ordination and the jurisdiction of bishops, The Macmillan Company, 1973, p. xi.

[2] Windsor Cristina León Alfar, «“Let’s consult together” – Women’s agency and the gossip network in The Merry Wives of Windsor», in The Merry Wives of Windsor: New Critical Essays (Shakespeare Criticism), edited by Evelyn Gajowski, Phyllis Rackin, p.38, Taylor and Francis, 2015 Routledge, Edizione del Kindle.

[3] Susan Gushee O’Malley, “May we, with the Warrant of Womanhood and the witness of a good conscience, pursue him with any further revenge?” Feminist citizen revenge comedy in The Merry Wives of Windsor, in The Merry Wives of Windsor: New Critical Essays (Shakespeare Criticism) edited by Evelyn Gajowski, Phyllis Rackin, p. 61, Taylor and Francis, 2015 Routledge, Kindle Edition.

[4] Rosetta Silvestri Baffi, Giustina Rocca. Giurista del Cinquecento, Bari Santo Spirito, Ed. del Centro Librario, 1973.

[5] Il titolo completo è Tractatus de iure patronatus omnium i.u.c. clarissimorum, qui quidem hactenus extant.

[6] Cesare Lambertini, Tractatus de iure patronatus clarissimorum, omnium V.I.C. qui hactenus luculenter hancipsam tractarunt materiam nempe …, Venetiis, apud Zenarium & Fratres 1584, vol. I, fo. 62, n. 40, in Francesco Mastroberti, “Sul caso della tranese Giustina Rocca e sulla donna arbiter nella dottrina giuridica tra medioevo ed età moderna”, in La donna nel diritto, nella politica e nelle istituzioni, a cura di Riccardo Pagano e Francesco Mastroberti, Quaderni del Dipartimento Jonico n. 1/2015, p. 108.

[7] G. B. Beltrani, Per Trani, per la terra di Bari – Per la Regione Pugliese, Trani, Paganelli, 1920, pp. 88-89, in Francesco Mastroberti, “Sul caso della tranese Giustina Rocca e sulla donna arbiter nella dottrina giuridica tra medioevo ed età moderna”, in La donna nel diritto, nella politica e nelle istituzioni, a cura di Riccardo Pagano e Francesco Mastroberti, Quaderni del Dipartimento Jonico n. 1/2015, p. 108.

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