Per ripartire – Memorie tarantine

di Aldo Perrone

Un giornale di quelli che una volta si chiamavano impegnati, che voglia ritrovare una strada che porti a incontrare i valori autentici, operando nel nostro Mezzogiorno con senso critico e vastità di vedute.

Si dovrà guardare in ogni ambito, e con sensibilità e senso del dovere cercare quanto – ed è molto – nel nostro passato è stato disperso e trascurato. Certamente ogni sforzo intellettuale mira a condurre verso il futuro. Diceva il grande filosofo Alain, “Il futuro è il passato che si esprime in ragioni”.

Le ragioni, non le mode. E la costruzione di basi del futuro implica che il primo fattore sia l’individuo. Se ci sono lacune da colmare la prima riguarda se stessi, per evitare gli errori del pressappochismo e della mancanza di profondità. Per l’impegno in luoghi particolarmente lontani dai grandi centri culturali, come è la nostra provincia (Ta), occorrerà essere nel locale ma senza passare al provincialismo. Che vuol dire avere la capacità di soppesare con onestà intellettuale le stelle luminose senza far di tutt’erba un fascio. E non è vero che nelle province non ci siano talenti, e spessissimo la loro vita è più ardua. Ma sono quelli che contano.

C’è tanto da fare. In primo luogo recuperare i grandi, le guide autentiche del nostro sapere, e con spirito critico.

Quanti hanno approfondito i valori della “Voce del Popolo”, il vero unico giornale di qualità della provincia di Taranto, nella maggior parte della sua storia quasi centenaria?  Non è possibile produrre un buon lavoro su Taranto – ed anche sulla Puglia – senza compulsare le sue pagine, talvolta davvero splendide, che non cedono a nessuna stampa nazionale, specie nel periodo della direzione di Antonio Rizzo (junior). Queste sono da antologia.

Proprio la figura di Antonio Rizzo va incontrata dalle nuove generazioni. Una personalità che è riuscita a creare nella sua città formidabili attività culturali, all’altezza delle massime mai avvenute nell’Italia dello scorso secolo, e ben conosciute in Italia.

La più grande – è nota – la creazione del Premio Taranto (1948-1952), che sconvolse non solo Taranto ma anche l’Italia. Il suo Premio di letteratura di mare, e poi di pittura, con le formidabili mostre (si ricordi che la guerra era terminata da poco, nel capoluogo e nei dintorni c’erano ancora ben visibili le macerie). Portò a Taranto, nei quattro anni, oltre Giuseppe  Ungaretti (che ne fu presidente), Carlo Emilio Gadda, Raffaello Brignetti, Pier Paolo Pasolini, Giorgio Caproni, Aldo Palazzeschi, Fausto Pirandello, Alberto Savinio, Umbro Apollonio, Felice Casorati (presidente per la pittura), Gianna Manzini, Renato Birolli, Gino Meloni, Bruno Cassinari (e centinaia di altri che non si può qui nominarli tutti – e poi i giornalisti delle grandi testate e persino i grandi filmati della Settimana Incom – ancora rintracciabili).

Grandioso, quanto sfortunato, verrà poi (1955-56) il Premio per un Monumento a Paisiello, uno dei maggiori concorsi di scultura mai fatti in Italia (quasi un centinaio di grandi talenti italiani). Vinto da Nino Franchina con la sua opera astratta, un capolavoro: uno dei più celebri monumenti al mondo… mai realizzati. Entrambe queste stupende pagine furono fermate dalla miopia della classe politica – miopia è un eufemismo – che ebbe comportamenti di incancellabile vergogna, mostrando che Giustino Fortunato e Gaetano Salvemini, con il loro pessimismo, avevano ragione da vendere. Bisogna dirlo, in molti casi la situazione di tanta classe politica non appare mutata, anzi; anche se alcune eccezioni esistono. Probabilmente il decadere delle università italiane, afflitte da pesantezze burocratiche e da familismo aut similia, ha certamente dato il suo contributo.

Tra le tante operazioni culturali di Rizzo non si può non ricordare l’aver salvato Taranto vecchia dalla ruspa (1969). Andrebbero riepilogate tante altre bellissime iniziative, fino alla sua scomparsa (1982), ma si tornerà sull’argomento. Restano le sue idee e le sue pagine bellissime, in libro, e nel “suo” giornale, o sparse in altri lidi.   Oltre Rizzo, quello che lui considerava il suo maestro, il formidabile letterato e storico che fu Vito Forleo. Le sue pagine sono magiche, non si leggono, si bevono. La sua è un’erudizione fatta poesia. Tanti i suoi imitatori, spesso copiatori senza citare la fonte, che invece dovrebbero esercitarsi in ricerche in biblioteca per locupletare quelle ricerche e scrivere altre pagine, per riservarsi al vero, all’autentico, all’originale. Aggiungerei anche il manduriano Marco Gatti che fu una personalità di quelle da non dimenticare, per chiudere con un pensiero doverosissimo ad Emilio Consiglio.

Dal dopoguerra ad oggi la nostra città ha vissuto pagine straordinarie, con personalità ineguagliabili. In realtà legate alla medesima corrente di pensiero, e di impegno. Un dovere, rivisitarle, altrimenti sarebbe una grande perdita. Riprendere e godere le pagine “tarantine” di un Salvatore Quasimodo, e quelle di un Cesare Brandi e di un Ettore Paratore, per non dire di Carlo Emilio Gadda e Gaetano Arcangeli; e le pagine tarantine di un tarantino (milanese per i suoi amici di Milano) Raffaele Carrieri, e l’altro tarantino Giacinto Spagnoletti. Ma quanti sanno di pagine “tarantine” di un  Gillo Dorfles, e di Pier Paolo Pasolini, e di Bruno Zevi, e di Claudio Marabini, e di Raffaello Brignetti, e di Leone Piccioni e di Vittorio Brandi-Rubiu, e  di Vittorio Sereni, e di Carlo Laurenzi, e di Giulio Carlo Argan, e di Adolfo Oxilia, e di Umberto Eco (e chiedo scusa per qualche dimenticanza).

Non mi permetto qui di parlar della poesia, perché in un popolo di sessanta milioni di poeti su cinquantotto milioni di abitanti il discorso è rischioso. Ma che il grande poeta che è stato ed è Michele Pierri oggi venga ricordato per la breve vicenda nella sua tarda età con Alda Merini (certamente splendida poetessa) è davvero errore grave. Un poeta amato e considerato da Betocchi, da Ungaretti, da Pasolini, da Spagnoletti ecc. deve essere ritrovato e portato nella luce che gli compete e nelle forme che gli competono.

Consiglierei ai numerosi poeti (e romanzieri), così enormemente diffusi nei nostri lidi, di dedicarsi prima a studi che guardino i veri grandi. Seneca ci insegna il valore del proprio tempo: puoi chiedermi soldi, ma non il tempo, quello non potrai mai restituirmelo. Cosicché scoprire di aver perso i migliori anni per cose leggere o addirittura futili è il peggior regalo che uno possa fare a se stesso. Allora, non disperdersi nel facile, per godere dell’autocompiacimento. Ma ricordare che “è solo per il difficile che vale la pena di combattere”. Anche questa intrapresa è una scelta del difficile. Favoriamola.

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