Biografia – Studio

Giustina, nel nome il destino

di Lucia Diomede

II Parte

Chi era Giustina Rocca.

Giustina apparteneva a una famiglia usa a esercitare prestigiosamente le professioni legali (addirittura a corte). Infatti, è attestato[1] che un certo Angelo Rocca, al tempo di Giovanna, regina di Napoli dal 1414 al 1435, fu Regio Consigliere e Ambasciatore oltre che beneficiario dei privilegi del Sedile dell’Arcivescovado (1418); suo figlio Berardino avrebbe generato Giustina. Risulta che Berardino ebbe un altro figlio, Giovan Bartolomeo, il quale, a sua volta chiamò suo figlio Angelo: questi è sicuramente uno dei due nipoti che affidarono l’arbitrato della loro causa a Giustina secondo il racconto del Lambertini. Per cui, Giustina era nipote da parte di padre del gran dignitario della regina Giovanna.

Sembra che la madre di Giustina Rocca appartenesse alla famiglia Filangieri[2], seguendo le tracce dei disegni delle vecchie tombe della chiesa arcivescovile di Trani e in particolare della tomba di Cornelia Palagano, figlia di Giustina, riportati da Vincenzo Manfredi[3].Quest’ultima fonte consente anche di acquisire il primo dei due scritti della Rocca arrivati a noi, ovvero l’iscrizione funeraria per la figlia Cornelia. Giustina, infatti, scelse successivamente di essere sepolta insieme a sua figlia Cornelia, morta prematuramente quando aveva circa venti anni, e sul sarcofago, che conteneva ambedue le salme, vi erano gli stemmi delle due nobildonne.

Inoltre, Giustina era stata moglie, ormai vedova, di Giovanni Antonio Palagano, appartenente a un’altra famiglia nobile e bene in vista nella città, militare a servizio del re in diverse città, quindi spesso assente da casa; da lui aveva avuto quattro figli (tre maschi e una femmina, come abbiamo detto, morta prematuramente nel 1492). In epoca rinascimentale vi sono altre testimonianze di donne che avevano scelto gli studi, ma lo avevano fatto a prezzo del loro profilo privato, ovvero scegliendo di non sposarsi: Giustina, invece, si sposa e ha figli, e anche questo particolare è notevole.

Altra fonte interessante è il testamento della donna[4]. Giustina poco dopo la pronuncia della sentenza del lodo arbitrale si ammalò, tanto che il 10 giugno 1501 (poco più di un anno dopo la pronuncia del lodo arbitrale), come afferma nel testamento, «malata di corpo, ma sana di mente, di memoria e di parola» chiamò il giudice, un notaio e sette testimoni tra gli uomini più eminenti della città, e affidò loro le sue ultime volontà: lasciava tutto in parti uguali ai tre figli maschi, non riconoscendo diritti di primogenitura, ma solo quello della sostituzione (in caso di morte prematura senza figli legittimi di uno degli eredi, gli altri fratelli lo avrebbero sostituito), e un lascito al Capitolo della Cattedrale per suffragi a sé e alla figlia. Forse facendo tesoro dei problemi di gestione delle volontà e dei legati testamentari ai quali aveva fatto da arbitro, Giustina nominò anche due esecutori, dando loro la facoltà di alienare beni per dare integra esecuzione al testamento ed esatta ripartizione dell’eredità ai tre figli. Non è difficile notare in questi scrupolosi accorgimenti e nella scelta di non tener conto dei diritti di primogenitura una conoscenza finissima del diritto (e diremmo anche delle dinamiche dell’animo umano quando si tratta di ereditare) e una altrettanto sottile capacità di sapersene avvalere. Nel 1502 Giustina morì e fu tumulata, come aveva disposto, insieme a sua figlia. Nel Settecento, purtroppo la tomba fu asportata per lavori di modifica della cattedrale. Oggi non si sa dove sia esattamente il sepolcro, ma è rimasta la lapide con l’iscrizione per la figlia e, appunto, la descrizione del sarcofago tra i manoscritti custoditi nella Biblioteca Comunale di Trani.

La notizia della morte di Giustina riecheggiò anche a Venezia, dove era nota, in quanto stretta congiunta di Angelo Rocca, ambasciatore presso la Serenissima e parente di Luca, sindaco della città che governava Trani dal 1496.

Dai particolari recuperati della vita di Giustina, secondo gli esperti[5], emerge il quadro di una donna che molto probabilmente fece anche da ambasciatrice degli affari tranesi presso Venezia, e che era abituata a gestire e dirimere le questioni giuridiche ed amministrative durante le lunghe e numerose assenze del marito. D’altronde, è probabile che lo abbia cominciato a fare, sia perché evidentemente le assenze del marito lo richiedevano, sia perché riusciva quasi “naturale” a lei che sin dall’infanzia aveva vissuto in una famiglia in cui si “respirava” diritto, in un ambiente cittadino, quello tranese, in cui l’applicazione delle donne agli studi giuridici era visto favorevolmente, o quanto meno non avversato. Chiaramente ciò non è sufficiente a giustificare l’incarico professionale di cui stiamo parlando. Esso presupponeva che ne “avesse i titoli”: i suoi studi dovevano molto probabilmente aver compreso il latino e il diritto romano in scuole regolari se le fu concesso di esercitare professionalmente mansioni giurisdizionali come l’arbitrato dal banco del giudice. Inoltre, la sua attività non doveva essere stata sporadica, ma sufficientemente regolare e riconosciuta valida, se appunto le fu concesso tal seggio l’8 aprile del 1500 con regolare retribuzione: d’altronde lo stesso Lambertini sottolinea che le «mirabili cose» erano «queste ed altre maggiori».

 

Cosa prevedeva il diritto a quel tempo

Sulla credibilità del Lambertini vi sono pochi dubbi, dato il successo nel tempo e nello spazio della sua opera. Del resto è possibile – e l’inizio del brano lo fa intendere – che lui stesso avesse assistito alla scena. Il fatto raccontato dal Lambertini può avere una serie di plausibili spiegazioni sul piano sociale: Trani, la città degli Ordinamenta Maris, era una città ricca, mercantile e marittima, sicuramente evoluta e, grazie ai rapporti con Venezia e con tutto il bacino del Mediterraneo, intrisa di cultura rinascimentale che, tra l’altro, rivalutava la figura femminile esaltandone forza e capacità anche in campi tradizionalmente e giuridicamente riservati agli uomini. D’altronde la Controriforma era di là da venire: si era in epoca precedente alla stretta sul comportamento e sulla morale specie delle donne promossa dal Concilio di Trento. Giustina ha saputo affermare nel suo tempo e nella sua società la sua spiccata personalità che si apriva alla sfera pubblica attraverso l’esercizio del diritto. Bisogna dunque tentare di capire se, come e in che misura l’arbitrato esercitato da una donna il giorno 8 aprile 1500 fu eccezionale sul piano giuridico e come venne giustificato.

Lambertini non aveva dubbi sulla possibilità che una donna potesse ricoprire le funzioni di arbitro. «Mulier enim potest esse arbitrix ex consuetudine et arbitratix mero iure»[6]. In particolare, per quanto riguarda il caso di Giustina Rocca, la legittimazione, secondo Lambertini, si fondava sulla consuetudine. Per lui, il primo riferimento era costituito dalla Decretale Dilectii filii (X 1.43.4) di papa Innocenzo III, datata Laterano 2 novembre 1202, in cui il Papa stesso ragionava se si potesse ritenere valido un arbitrato esercitato da Eleonora D’Aquitania rispetto a una disputa tra monaci Cistercensi e Ospitalieri della diocesi di Sens, contestato dalla parte soccombente, proprio a causa del sesso femminile dell’arbitro.

Il Papa si rifaceva innanzitutto a «regulam iuris civilis», che non consentiva alle donne di occupare i pubblici uffici (D.50.17.2) e poi a una parte di CI.2.55.6 (Costituzione Sancimus di Giustiniano) che vietava l’arbitrato alle donne. Tuttavia, il Papa accettava la consuetudine di particolari luoghi, nel caso di specie la consuetudine delle terre di Gallia, che consentiva a donne eminenti di avere giurisdizione sopra i loro sudditi. Oltre a ciò, Lambertini richiamava le glosse “ufficiali” allo stesso testo della decretale, che ne avevano ampliato la portata, estendendo la liceità di un arbitrato femminile all’esistenza di una consuetudine in un determinato posto, non solo della Gallia, nonostante vi fosse ribadita la condizione di inferiorità delle donne rispetto all’uomo. Perciò, Lambertini, a corroborare quanto affermato con la ricostruzione normativa, cita l’esempio di Giustina Rocca, evidentemente facendo riferimento ad una consuetudine dell’esercizio del diritto da parte delle donne nel territorio di Trani.

Mastroberti[7] ricostruisce anche la discussione giuridica sulla capacità delle donne di esercitare le funzioni di arbitro sin dal Medioevo: vi era la proibizione di D.50.17.2 e, più in particolare, la costituzione del Codex di Giustiniano 2.55.6. L’Imperatore, constatando che si tollerava che le matrone facessero da arbitro tra i liberti, sanciva di allontanarle da tutti i corpi giudiziari, perché ciò non fosse pregiudizievole per le parti. Proprio le glosse a questa costituzione nel XII e nel XIII secolo delinearono il divieto per le donne di esercitare le funzioni di arbitro. Era indifferente per gli arbitri il possesso di una buona reputazione. La dottrina, nell’enumerare le varie cause di incapacità, si limitava soltanto al sesso, alla condizione sociale, all’età e alla funzione”[8].

Nel contempo, gli esperti di diritto canonico mostravano una maggiore apertura: «cogliendo nell’evolversi della storia alcuni elementi di novità rispetto alle norme di diritto romano-giustinianeo rifluite nel Decreto, ritiene queste ultime inapplicabili nella loro recisa formulazione»[9]. Avevano guidato questa riflessione l’esempio di donne eccezionali, come la regina dei Franchi Brunilde e Matilde di Canossa, esempi che consigliavano di temperare le rigide norme del diritto civile. Questa maggiore apertura dei canonisti, che portò a riconoscere la consuetudine come elemento dirimente nel poter consentire o meno alle donne di esercitare la funzione arbitrale, era probabilmente anche dovuta all’esigenza di consentire alle nobildonne di sostituire mariti e figli impegnati nelle crociate.

La legittimazione di Lambertini al fatto dell’8 aprile del 1500 è importante sotto il profilo storico-giuridico: egli infatti capovolge l’impostazione tradizionale fondata sul rapporto regola-eccezione. Evidentemente la sua argomentazione non è esente da forzature, sottolinea Mastroberti[10], ma è un’apertura notevole che corrisponde allo spirito rinascimentale ma che, soprattutto dopo il Concilio di Trento, non troverà altri riscontri. Mastroberti, sottolinea allora che l’arbitrato di Giustina è una eccezionalità legata innanzitutto all’autorevolezza che la donna aveva guadagnato nel tempo in materia di competenza giuridica: non era regina, né badessa, non aveva alcuna potestas eppure fu incaricata di svolgere le funzioni arbitrali e fu legittimata dal diritto e dal popolo accorso a vederla. Operando sul piano della concretezza, si impose sui tempi e sulle convenzioni sociali riuscendo addirittura a piegare il diritto dell’epoca. Lo stesso pagamento delle spettanze per l’attività svolta denotano la volontà di essere trattata in tutto e per tutto come un uomo di legge, avvalorando anche la sua imparzialità di arbitro, che nonostante la parentela esigeva il compenso dovuto. Ora, il fatto che Giustina pronunciasse il lodo arbitrale in lingua volgare, fu sì cosa eccezionale, tanto che il popolo vi accorse e rimase stupefatto, ma secondo Mastroberti bisogna anche considerare che gli Ordinamenta et consuetudo maris di Trani erano scritti in volgare e ciò è importante ai fini della valutazione dell’arbitrato della Rocca: fatto è che a Trani l’utilizzo del volgare per gli atti giuridici era possibile e comunque in linea con le esigenze di un popolo di mercanti e navigatori che con il diritto avevano una frequentazione quotidiana e per i quali esso aveva una dimensione squisitamente pratica. Nel XV secolo, i giovani tranesi e pugliesi di buona famiglia si recavano nelle maggiori città italiane a studiare, specie a Padova e a Bologna, centri di antica consuetudine universitaria, e tra di essi vi sono testimonianze storiche della frequenza di alcuni avi di Giustina. Vi erano poi scuole di diritto a Trani per coloro che non volevano o non potevano allontanarsi, che rilasciavano il Privilegio di Dottore, più o meno equivalente alla laurea, col quale si poteva esercitare l’avvocherìa. Chissà che Giustina non avesse frequentato una di queste scuole, conseguendone il titolo, se le fu ufficialmente consentito di pronunciare un arbitrato in una sede istituzionale ed essere retribuita per questo. Trani era un centro di studi e attività giuridiche tra i più antichi dell’Italia medievale, e per molti secoli il più importante della Puglia.

 

Trani alla fine del Quattrocento

Al tempo di Giustina[11], Trani non era uno Stato (come lo era stata in passato), ma una città in una situazione molto particolare: faceva parte del Regno di Napoli sotto gli Aragonesi, ma per pegno di prestiti era stata temporaneamente “ceduta” ai veneziani. Ferdinando II d’Aragona, infatti, come pegno per avergli fornito una flotta, l’aveva ceduta a Venezia insieme a Monopoli, Brindisi e Otranto; tali città sarebbero tornate sotto il suo controllo dopo il rimborso delle spese per la flotta. Era il tempo in cui si era costituita la Lega di Venezia o Lega Santa del 1495, in cui la stessa Venezia, il Papa, l’imperatore del Sacro Romano Impero Massimiliano, il Re di Spagna, gli Sforza di Milano e l’Inghilterra, si unirono per contrastare l’egemonia francese nella penisola italiana (Carlo VIII, re di Francia, dal settembre 1494 fino ai primi mesi del 1495, era disceso in Italia con il suo esercito e aveva conquistato i territori attraversati, da Asti fino a Napoli).

I Veneziani furono molto prudenti nel governo di queste città e può darsi che Giustina, visti i delicatissimi rapporti che sussistevano tra Trani e Venezia, per la sua preparazione giuridica, per il ruolo istituzionale che ricopriva, per il ruolo che aveva avuto il marito e per quello che avevano suoi parenti, sia stata intermediaria presso le istituzioni veneziane di questioni che i suoi concittadini volevano risolvere prima del ritorno degli aragonesi, nel periodo precedente all’arbitrato del 1500.

[1] Rosetta Silvestri Baffi, Giustina Rocca. Giurista del Cinquecento, Bari Santo Spirito, Ed. del Centro Librario, 1973.

[2] Ibid.

[3] V. Manfredi, Zibaldoni, Libro III, Nota per sapersi li sepolcri antichi della chiesa arcivescovale di Trani cavata da un libro del R. Capitolo, c. 57, ms. della Biblioteca comunale di Trani.

[4] V. Vitale, Trani dagli Angioini agli Spagnuoli Contributo alla storia civile e commerciale di Puglia nei secoli XV e XVI, Bari, Società di Storia Patria per la Puglia, 1912, pp. 578-622.

[5] Rosetta Silvestri Baffi, op. cit.

[6] Francesco Mastroberti, “Sul caso della tranese Giustina Rocca e sulla donna arbiter nella dottrina giuridica tra medioevo ed età moderna”, in La donna nel diritto, nella politica e nelle istituzioni, a cura di Riccardo Pagano e Francesco Mastroberti, Quaderni del Dipartimento Jonico n. 1/2015, p. 112.

[7] Ibid.

[8] L. Martone, Arbiter arbitrator. Forme di giustizia privata nell’età del diritto comune, Napoli, Jovene, 1984, p. 63.

[9] Mastroberti, op. cit., p. 113.

[10] Francesco Mastroberti, “Sul caso della tranese Giustina Rocca e sulla donna arbiter nella dottrina giuridica tra medioevo ed età moderna”, in La donna nel diritto, nella politica e nelle istituzioni, a cura di Riccardo Pagano e Francesco Mastroberti, Quaderni del Dipartimento Jonico n. 1/2015, p. 117.

[11] Rosetta Silvestri Baffi, Giustina Rocca. Giurista del Cinquecento, Bari-Santo Spirito, Ed. del Centro Librario, 1973

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