L’essere nel tempo di J. L. Borges

di Sandro Marano

 

«Nei minuti della sabbia mi pare

di sentire il tempo cosmico: la storia

che racchiude nei suoi specchi la memoria

o che il magico Lete ha dissolto.

La colonna di fumo e quella di fuoco,

Cartagine e Roma e la loro guerra incalzante,

Simon Mago, i sette piedi di terra

che il re sassone offre al re norvegese,

tutto trascina e perde questo instancabile

filo sottile di sabbia numerosa.

Non mi salverò io, fortuita cosa,

di tempo, che è materia così fragile.»

 

Si potrebbe considerare l’opera di Jorge Louis Borges (1899 – 1986) un originale e possente compendio delle letterature del mondo, che come tanti piccoli e impetuosi rivoli confluiscono e finiscono per costituire un largo e maestoso fiume (immagine cara al poeta argentino a simboleggiare l’inarrestabile scorrere del tempo). Non si contano infatti, i rimandi, le chiose all’Odissea e ai Vangeli, le citazioni dalle Mille e una notte all’Orlando furioso, dalle letteratura anglosassone a quella persiana, dalla filosofia di Eraclito e di Spinoza a quella di Emerson e dell’amato Schopenhauer, «che forse decifrò l’universo» (Un’altra poesia dei doni).

Nei ritratti di personaggi storici e di uomini di lettere, che compongono molte delle sue poesie, spesso in forma di monologo, probabilmente Borges nasconde se stesso, ma in ogni caso mette sempre in risalto una profonda verità umana: «sia guerriero che letterato il personaggio […] è spesso colto nel suo sogno essenziale, in una versione segreta e congetturale che può arrivare a capovolgere la versione ufficiale, in un momento privilegiato e fatale, che talora coincide con quella della gloria o della morte, momento in cui si rivela con stupore il senso di un’intera esistenza o addirittura s’illumina la chiave dell’universale disegno» (Roberto Paoli)

L’incanto della poesia di Borges proviene dalla sapienza con cui il tono meditativo e narrativo si scioglie in «vigorose sintesi analogiche» (Roberto Paoli), in verità morali, in grandiose metafore, sovente di origine barocca, come la clessidra, lo specchio, il fiume, gli scacchi, la biblioteca, il labirinto.

Qualcuno, non a torto, ha detto che in ogni poesia di Borges c’è tutto Borges, intendendo la sua concezione del mondo che si esprime in temi ricorrenti: la indecifrabilità del reale, la vita sentita come sogno ed illusione, il sentimento angoscioso del tempo, la serena accettazione del proprio destino mortale.

Emblematici sono i versi sopra citati, che costituiscono le ultime tre quartine in endecasillabi rimati (nell’originale in lingua spagnola), tratti dalla poesia Orologio a sabbia, che fa parte della raccolta L’artefice del 1960. La storia, che a volte è memoria e a volte è oblio, comprende insieme la rivelazione divina e la sua negazione, la lotta per la supremazia delle varie potenze e i miti delle origini, e quella povera cosa che è l’io individuale con i suoi drammi e i suoi affetti familiari.
In un’altra poesia, Una bussola, Borges definirà la storia del mondo un «infinito guazzabuglio» (in L’altro, lo stesso del 1964), ma come ha scritto Leonardo Sciascia «non dalla storia è ossessionato Borges, ma dal tempo. Per lui la storia non è che l’assurdo corollario di quella più vasta e spaventosa  «assurdità che è il tempo» (Un affascinante teologo ateo, in Corriere della sera, 30 settembre 1979).

Ma il tempo, a volte, in Borges è anche ricordo, consolazione, rimpianto, come nella poesia La pioggia, tratta da L’artefice, dove il cadere monotono della pioggia ha una funzione evocatrice della propria infanzia:

 

«Bruscamente la sera s’è schiarita
perché cade la pioggia minuta.
Cade o cadde. La pioggia è senza dubbio qualcosa
che succede nel passato.
Chi la sente cadere riconquista
quel tempo in cui la sorte fortunata
gli svelò un fiore che si chiama rosa
e il curioso colore del carminio.
Questa pioggia che rende ciechi i vetri
rallegrerà in sobborghi ormai perduti
i neri grappoli di un certo patio
che non esiste più. La sera rorida
mi porta la diletta, attesa voce
di mio padre che torna e non è morto.»

 

In un testo del 1975 il poeta argentino dice di sé (e come non riconoscersi tutti in questa verità?): «sono eco, oblio, nulla» (Sono, in La rosa profonda). Sennonché la forza della poesia è quella di sottrarci in qualche modo all’oblio, magari per poco, come è adombrato in questa quartina di Arte poetica (in L’artefice ):

 

«Raccontano che Ulisse, stanco di prodigi,

pianse di amore quando scorse la sua Itaca

verde e umile. L’arte è quell’Itaca

di verde eternità, non di prodigi».

 

La poesia, al di là dei “prodigi”, del favoloso di cui è intessuta, ha senso se torna alle origini, se ci spinge a cercare l’«Itaca verde e umile», se cioè sa cogliere il nucleo vitale e palpitante della condizione umana.

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