08. Commentiamo: ALDA MERINI

di Ilaria Mancino

 

Luce

 

Chi ti scriverà, luce divina
che procedi immutata ed immutabile
dal mio sguardo redento?
Io no: perché l’essenza del possesso
di te è “segreto” eterno e inafferrabile;
io no perché col solo nominarti
ti nego e ti smarrisco;
tu, strana verità che mi richiami
il vagheggiato tono del mio essere.

Beata somiglianza,
beatissimo insistere sul giuoco
semplice e affascinante e misterioso

d’essere in due e diverse eppure
tanto somiglianti; ma in questo
è la chiave incredibile e fatale
del nostro “poter essere” e la mente
che ti raggiunge ove si domandasse

perché non ti rapisce all’Universo
per innalzare meglio il proprio corpo,
immantinente ti dissolverebbe.
Si ripete per me l’antica fiaba
d’Amore e Psiche in questo possederci
in modo tanto tenebrosamente
luminoso, ma, Dea,
non si sa mai che io levi nella notte
della mia vita la lanterna vile
per misurarti coi presentimenti
emananti dei fiori e da ogni grazia.

(22 dicembre 1949, da La Presenza di Orfeo)

Di fronte alla luce non può esserci che silenzio. Per parlare dobbiamo allontanarcene ma, per trovare ispirazione, di nuovo beverne. Avvicinandosi e allontanandosi, l’anima danza e danzando crea.

Delicatamente e sapientemente Alda Merini, in questo suo testo di esordio, dialoga con la luce.

Meno che ventenne la Merini si accosta al mistero del “tramite”. La voce del poeta percepisce la luce ma non può restituirla con parole. È impossibile, malgrado siano fatti della stessa materia, anzi forse per questo.  Sa di doversene allontanare per poterne scrivere, deve danzare.  E allora viene in aiuto il mito a spiegare il mistero. Mito primo strumento per rendere immanente l’assoluto e il mistero, la realtà percepita e la realtà raccontata. Amore e Psyche è l’immenso archetipo di ogni rapimento estatico sia esso mistico o carnale. Come Psyche occorre muoversi al buio per poter godere di Amore evitando di alzare la lampada e bruciare l’amato con la luce artificiosa della curiosità e della malafede. La luce interiore non si può che contemplare nel buio della vista e nel trionfo dei sensi.  L’estasi ha mille nomi impronunciabili che il poeta conosce ma non può dire.

 

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