Gary Snyder e l’ecologia profonda

di Sandro Marano

 

«Laghetto nevoso granito caldo
ci accampiamo,
nessun pensiero di cercare ancora.
Sonnecchiamo
e abbandoniamo le nostre menti al vento.

Sulla roccia, gentilmente inclinati,
il cielo e la pietra,

insegnami ad essere tenero.

Il tocco che quasi non tocca –
l’incrocio fuggevole di sguardi –
passi minuscoli –
che infine ricoprono mondi
dal duro terreno.
Batuffoli di nuvole e nebbie
raccolti nelle pozze blu ardesia
delle piogge estive.

Prendiamo il tè nella sera purpurea e stellata,

la luna nuova sta per tramontare,

perché ci vuole così

tanto per imparare ad 

amare,

ridiamo

e soffriamo.»  

 

Questa poesia intitolata Roccia fa parte della raccolta L’isola della Tartaruga di Gary Snyder (San Francisco1930). Snyder, esponente di primo piano di quel movimento filosofico culturale e politico che è l’ecologia profonda, è considerato, a ragione, uno dei maggiori poeti americani contemporanei. Ricordiamo, per inciso, che furono il filosofo norvegese Arne Naess e lo scrittore americano George Sessions a stendere nel 1984 gli otto punti della piattaforma dell’ecologia profonda, cui Snyder aderì.

Pubblicata nel 1974 e insignita nell’anno successivo del premio Pulitzer per la poesia, L’isola della Tartaruga, che è poi l’antico nome che i nativi davano al continente americano, è ormai «un classico della controcultura americana» (Chiara D’Ottavi). Consta di cinquantotto poesie suddivise in tre sezioni (Manzanita, Il canto della gazza e Per i bambini) e di cinque brevissimi saggi. Sia nelle poesie che nei testi in prosa emergono chiaramente la sintonia profonda e istintiva del poeta con la natura selvatica, la critica all’antropocentrismo e la sua visione ecologista. Nella nota introduttiva Snyder scrive: «Le poesie qui raccolte parlano di luoghi e di percorsi di energia, fonti primarie della vita. Ogni forma di vita è un mulinello nella corrente, un vivace turbinio nel flusso continuo dell’esistenza. […] Ascoltiamo nuovamente il richiamo profondo delle nostre radici.» 

Spiritualità buddista, amore per la natura selvatica e creatività poetica si intrecciano strettamente nella vita e nell’opera di Snyder:

 

«Per scalare queste cime,

un consiglio per te,

per te e per i tuoi figli:

state assieme,

imparate dai fiori,

andate leggeri.»

(da Per i bambini).

 

Attratto dal pensiero e dalla poesia dell’estremo Oriente (fin da giovane aveva letto le poesie cinesi tradotte da Pound),  dopo aver lavorato come taglialegna e guardaboschi nel parco nazionale dello Yosemite e aver studiato Zen e scienze forestali, nel 1955 affiancò, senza farne parte integrante, la beat generation. Tra l’altro, nei panni di Japhy Ryder, figura come uno dei protagonisti principali del romanzo di Jack Kerouac, I vagabondi del Dharma (1958). Fra il 1956 e il 1968 visse  in Giappone in un monastero zen, dove apprese il giapponese e le tecniche della meditazione, per poi tornare negli Stati Uniti. Dal 1986 insegnò a lungo scrittura creativa all’Università di Davis in California. Autore di più di una ventina di libri di poesie e di saggistica, con le sue poesie ha voluto richiamare l’attenzione della società americana e mondiale sulla natura selvatica oltraggiata da un presunto progresso: «È una questione d’amore, ma un amore che si estende agli animali, alle rocce, alla terra… a tutto. Senza questo amore possiamo finire, anche senza guerre, in un luogo inospitale».

Nei versi finali d’una delle più belle e significative poesie del libro, Il richiamo del selvatico, non nasconde una punta di pessimismo:

 

«Una guerra contro il pianeta.

Quando sarà finita non esisterà più

alcun luogo

Dove un coyote si possa nascondere.

Mi piacerebbe poter dire

Il coyote sarà per sempre

Dentro di voi.

Ma non è vero.»

 

A proposito di questa poesia la traduttrice e curatrice dell’edizione italiana de L’isola della tartaruga, Chiara D’Ottavi, osserva: «in Il richiamo del selvatico, la critica è indirizzata a tutti coloro che, sordi al richiamo del “selvatico” (rappresentato dal coyote), non hanno saputo interagire con il mondo circostante: un anziano, un gruppo di hippy, i guerrafondai dei tempi del conflitto vietnamita […] La poesia colpisce non solo per la sua incredibile attualità, ma anche perché porta a considerare il conflitto armato in un’ottica inedita: vittime dei bombardamenti americani non sono solo gli umani, ma anche gli animali e gli alberi». 

Com’ è stato notato da critici autorevoli, le poesie di Snyder si basano non sulla metrica, ma sul ritmo del respiro con frequenti assonanze, ripetizioni e allitterazioni. Lo stile, piuttosto colloquiale e disadorno, oscilla tra il lirico e il didattico. Citiamo, a mo’ d’esempio, Pioggia ad Alleghany, dove l’amore per la terra violata dalla miniera si unisce alle sensazioni di leggerezza e di benessere portate dalla pioggia e da una bevuta di birra:

 

«sotto i tuoni e gli scrosci d’acqua

gocce pesanti

estate polverosa –

bevendo birra appena dopo aver guidato

tutt’intorno ai

bacini dei fiumi

pendii rocciosi e macchine ammaccate

è una terra dura e scabra

come la mano rovinata del minatore

eppure, come l’amiamo!

ci facciamo birra e pioggia,

in una sosta del viaggio,

ad Alleghany»

 

Quella pioggia non rappresenta forse anche un pianto e quella bevuta di birra una via d’uscita provvisoria?

Ascolteranno mai gli uomini il richiamo del selvatico?

 

 

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