La spiritualità panteistica di Tagore

di Sandro Marano

 

«Il giorno è finito,

l’ombra scende sulla terra.

È tempo che vada a riempire

la mia brocca al ruscello.

Si sente nell’aria della sera

la triste musica dell’acqua,

che mi invita ad uscire nel buio.

Nel sentiero solitario

non passa nessuno;

il vento si è levato,

s’increspa l’acqua del fiume.

Non so se tornerò a casa,

non so chi potrò incontrare.

In una barchetta presso il guado

uno sconosciuto suona il liuto».

 

È questa una delle più belle poesie di Rabindranath Tagore (1861-1941), uno dei grandi poeti indiani, insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1913. La poesia è tratta da Gitanjali (Offerta di canti) del 1912, che gli diede notorietà internazionale e che nella traduzione inglese si fregiò della prefazione del poeta irlandese W. B. Yeats.

Tagore, che apparteneva a una facoltosa e aristocratica famiglia del Bengala, aveva ricevuto un’educazione improntata alle tradizioni indiane, ma aperta nel contempo alla cultura occidentale: Scriveva le sue opere prevalentemente in bengali (una delle lingue più melodiose del subcontinente indiano), per poi tradurle lui stesso in inglese. Le sue poesie, peraltro, erano fatte per essere cantate piuttosto che lette o recitate. Suoi, tra l’altro, sono il testo e la musica dell’inno nazionale dell’India, Jana Gana Mana (“Tu sei il dominatore delle menti di tutti”).

Il poeta indiano viaggiò molto in Europa, in Cina, in Giappone, negli Usa, prima per studio, poi per tenere conferenze e raccogliere i fondi per l’università di Shanti Nikan (“Asilo di pace”) da lui fondata, dove l’insegnamento era svolto all’aperto e alle varie discipline era affiancato l’esercizio dell’agricoltura, del lavoro manuale e della ginnastica.

Il poeta si fermò anche in Italia in due occasioni: nel 1925, su invito del Circolo filologico milanese, e nel 1926, invitato ufficialmente dal governo italiano. A Roma Tagore ebbe modo di incontrare Mussolini, che gli disse di aver letto tutte le sue opere tradotte in italiano e gli regalò, in segno di stima e ammirazione, la foto che gli scattò personalmente, conservata attualmente in un museo di Kerala nel sud dell’India. Tagore riportò un’ottima impressione dell’incontro ed ebbe parole di ammirazione per il regime fascista e per il Duce, che gli furono in seguito rinfacciate dai circoli antifascisti.

Ma veniamo alla poesia sopra riportata. C’è nel testo un senso di mistero che il lettore subito avverte e che il poeta indiano sa infondere ai suoi versi attraverso una sorta di «vaghezza espressiva» (Alessandro Bausani):  il linguaggio è ricco di immagini e carico di significati simbolici. La sera, l’acqua del fiume, il cammino solitario, il suonatore di liuto. La vita scorre come l’acqua del fiume. Il suo scorrere allude alla fugacità dell’esistenza. L’uomo, ciascun uomo, è solo. Come notava il filosofo spagnolo Ortega y Gasset, la vita è radicale solitudine: nessuno infatti può per conto mio sopportare il dolore che provo o decidere per me ciò che sto per fare. E per questo l’uomo percepisce «la triste musica dell’acqua». Ma l’acqua rappresenta anche la purificazione e la rinascita; si pensi al rito antico del battesimo. Bisogna accettare ed amare il proprio destino mortale. È forse questo l’invito del misterioso suonatore di liuto? E chi è il suonatore di liuto? È un Dio persona o piuttosto quel Dio che tutto avvolge?

Vien fatto di pensare a quel dipinto di Caravaggio, Il suonatore di liuto (1585) per l’appunto, dove la figura del suonatore non guarda né lo strumento né lo spartito, ma indirizza il suo sguardo languido e forse invitante verso colui che lo osserva. Scrive il critico Alessandro Bausani: «Tagore è maestro nell’esprimere con sfumature nuove motivi che sono in fondo “popolari”». E conclude: «Quindi canto d’amore o canto religioso? Ambedue, forse».

Tagore esprime nella sua opera, non solo poetica ma anche saggistica e narrativa, una spiritualità misticheggiante, panteistica. La sua filosofia si avvicina per certi versi a quella di Bergson, che nell’Evoluzione creatrice (1907) scriveva: «La filosofia non può che essere altro che uno sforzo per tornare a fondersi nel tutto». Anche Tagore tendeva a una fusione mistica con l’universo. Egli cercava di far capire ai suoi contemporanei che nella vita esiste qualcos’altro oltre il denaro, il successo e i beni materiali.

In un’altra poesia della Gitanjali aveva scritto, rivolgendosi a quello Spirito che tutti ci avvolge:

 

«Oh, esaudisci la mia preghiera:

ch’io non perda mai la carezza dell’uno

nel gioco dei molti». 

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