L’economia della produzione o della felicità?

di Sandro Marano

 

Uno dei paradossi più famosi della scienza economica è quello formulato dall’economista Richard Easterlin nel 1974 e che porta il suo nome, il cosiddetto paradosso di Easterlin. Questo economista notò, sulla base di verifiche empiriche, che mentre piccoli incrementi nel reddito portano a consistenti aumenti di soddisfazione, il che è abbastanza intuibile, quando il reddito cresce oltre una certa soglia, la correlazione tra PIL (vale a dire il prodotto interno lordo, che è misurato dall’aumento delle merci e dei consumi) e felicità tende a scemare fino ad annullarsi.

È noto infatti che a determinare il benessere delle persone infatti non c’è solo il reddito, ma concorrono altri fattori che riguardano la qualità della vita, come un ambiente naturale sano, le relazioni interpersonali, la possibilità di donare il proprio tempo e le proprie cure ad altri (volontariato) e così via.

Già agli inizi del ‘900 si era costituita una corrente del pensiero economico alternativa a quella dominante, fondata su un approccio meramente quantitativo ai problemi e sulla riduzione di tutti gli aspetti della vita a puro calcolo, senza tener conto della gratuità, della creatività, del dono. Questo indirizzo della scienza economica va sotto il nome di economia della  felicità e tra i suoi antesignani e maggiori esponenti ci fu Roberto Michels, sociologo ed economista tedesco naturalizzato italiano che tenne la cattedra di Economia generale all’Università di Perugia nel 1928.  Michels fu per l’appunto autore di un testo intitolato L’Economia della felicità, in cui dimostrava che «felicità ed economia, benessere e ricchezza sono concetti tra i quali non intercede nessun nesso fatalmente logico».

In punto di fatto l’economia della felicità ha trovato applicazione a partire dal 1972 in un piccolo regno dell’Himalaya, il Buthan, nel quale il PIL  è stato sostituito dal FIL (Felicità Nazionale Lorda), un indice che tiene conto dei fattori extraeconomici.

Anche in Italia  già da qualche anno, l’Istat affianca alla rilevazione del valore del PIL, quella del BES, il cosiddetto “benessere equo e sostenibile”, una misura complessa che integra la tradizionale valutazione economicistica con altri indici, quali la sanità dell’ambiente naturale, la salute, la riduzione dell’energia usata per unità di prodotto, ecc. Se si vendono più armi, più allarmi, più medicine certamente il PIL crescerà, ma potremo dire che questa crescita rappresenta un miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini? Se una fabbrica come l’ILVA di Taranto viene chiusa ed avviata la bonifica dell’area, salvaguardando così i posti di lavoro, questo determinerà un aumento o una riduzione del benessere generale? Le nostre risposte ovviamente cambieranno a seconda dello strumento di misurazione utilizzato.

L’ecologia profonda che vuol essere una rivoluzione culturale non può che liberarsi dalla sudditanza verso l’economicismo e prendere le distanze da un concetto come il PIL, che non è solo un indicatore inadeguato, poco attendibile, ma è anche sbagliato per rappresentare il benessere di una nazione.

«Il PIL misura tutto eccetto ciò che rende meritevole la vita di essere vissuta». Questa frase, che suona tuttora eretica, non fu pronunciata da un pericoloso sovversivo o da un sognatore ecologista, ma dal candidato alla presidenza degli Stati Uniti, Robert Kennedy, il 18 marzo 1968 all’Università del Kansas. Il PIL, diceva tra l’altro Robert Kennedy, «non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi».

Il PIL infatti misura tutto ciò che si può scambiare col denaro, i beni intesi come merci, non la creatività, la gratuità, il dono, la bellezza dei nostri paesaggi o la salubrità dell’aria. Un edifico coibentato male fa crescere il PIL più di uno coibentato bene perché consuma maggiori quantità di energia, il che è sia uno spreco in termini economici sia un danno per l’ambiente.

Una domanda fondamentale che a questo punto va posta con forza è: «a che serve l’economia?». «Se sviluppo implica un significato di aumento e se qui si tratta invece di ridimensionare e diminuire, dobbiamo finalmente cominciare a domandarci sul serio dove sta scritto che ci si debba per forza e in tutti i campi sviluppare», scriveva in L’uomo, l’ambiente e se stesso l’ecologista italiano Rutilio Sermonti.

Purtroppo la crescita è un tabù, croce e delizia di quasi tutti i governi e figura nei programmi e nelle politiche di  tutti i partiti di destra e di sinistra fatte salve piccole minoranze.

Ecologia ed economia in verità vanno gestite unitariamente, riconducendo le attività economiche alla loro funzione strumentale. La politica, nel senso nobile del termine, è di questo che dovrebbe occuparsi con priorità. La loro separazione infatti, come dichiara risolutamente Rutilio Sermonti, è «alle radici del problema che oggi ci angoscia». E quando entrano in conflitto, «non sono le esigenze ecologiche che debbono cedere al progresso, ma è caso mai il progresso che deve trovare un confine assoluto e invalicabile nelle esigenze ambientali. Allorché supera quel limite, non è più progresso ma regresso». 

 

 

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