GIANNI ANTONIO PALUMBO

Alfiere del Lavoro, molfettese. Ricercatore in “Letteratura italiana” presso il DISTUM (Università

di Foggia), insegna “Filologia della letteratura italiana” e “Metodologia della critica letteraria”.

Direttore artistico della “Notte bianca della Poesia”, è redattore di “La Vallisa”, “Interzona news”,

“Menabò”, “Quindici” e “Luce e Vita”. Recenti sono l’edizione delle Rime di Isabella Morra, il

romanzo “Per Luigi non odio né amore” e il dramma “Le ombre” pubblicato sul periodico “La Vallisa”

(115). Come Giano bifronte critico, cura il blog https://gianobifrontecritico.wordpress.com/6 righi

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Triumphus aeternitatis

(di Gianni Antonio Palumbo)

Luce dialoga coi morti

e i morti appaiono splendenti

nella stagione del rosmarino.

Brucia verbene

sugli altari del camino

e invoca perdono

e un nuovo autunno

che non laceri le labbra.

Contro l’invidia coglie margherite

e le consacra all’innocenza di un ciclamino dispettoso

fiorito tra le rughe di un balcone.

Sorride alle lenzuola sciorinate

e al crepuscolo poi recita preghiere,

perché non nocciano a chi sarà poeta

i malparlieri.

 

Il “Secondo movimento” s’intitola Il “Nido notturno” e si apre e si chiude con due deliziosi omaggi alla stessa poetica e ingenua creatura, “Alla mia amica Luce” e “Triumphus Aeternitatis”, titolo petrarchesco – il secondo – che la dice lunga sulla matrice

umanistica della solida cultura dell’autore, la quale occhieggia qua e là nei versi con voci letterarie o specialistiche (ottundere, p. 14; malparlieri, p. 20; ciclotimie, p. 22; agminatim e obtùto, p. 25; Wurdalak e il regionalismo zinale, p. 26).

(Marco Ignazio de Santis)

 

 

Giovanna Sicari

 

Pioviggina ed è inverno a Monteverde

Là dove la fermezza scuote pupille

e sudore scorre lungo le gambe

in quel punto accelera

e matura il pentimento

allora tutto sale e si moltiplica la faccia

in tanti fotogrammi piccoli e come tu li vuoi.

-Ma lo vedi che sono cambiata, proprio ora

che non sappiamo dove andare, e c’è mordente

e c’è pace nella tua pura voce

nel sonno che toglie lo spavento, mercenari

siamo o piccoli come moscerini affamati

con la mente offuscata da spilli e chiodi –

Vorrei avvolta in un mantello non fingere

mai e poter pregare, chiamare

– mamma! – mamma incisa e designata,

mamma del ricordo come fosse lei sola a guarire

le ferite mentre fuori tutto è fermo e pioviggina

ed è inverno, è inverno a Monteverde dietro i vetri

nulla fa male, soltanto sogno non importa cosa;

ho tredici anni e piango per nulla con vero dolore

ma dentro in un attimo divampa la gioia.

Tutto in quella casa affonda

a poco a poco rivedo i fratelli nati alla stessa ora

o forse morti o partiti o cresciuti

in una bolla, non hanno rischiato la vita,

non si sono feriti nella campagna, ora li vorrei

qui all’ingresso della villa, in un soffitto di panno

con lo stesso cielo d’amore.

(da Epoca immobile, Jaca Book, 2003)

 

Quella di Sicari è una poesia complessa, ma non criptica; per coglierne la finezza, proprio perché in

essa ben si esprime quella heideggeriana Streit tra ciò che si nasconde e quanto si rivela, è

necessaria una lettura non distratta. Essa consentirà di apprezzarne il valore umano e l’alta qualità

poetica, nella ricerca di una parola mai banale, quasi scavata nella carne, incisa da un dolore che poi

si libra in speranza.

(Gianni Antonio Palumbo)

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