Apocalisse apocrifa di Giuseppe Semeraro, Les Flaneurs edizioni, 2023

di Luca Crastolla

 

Secondo il biblista francese Paul Beaushamp tutta “la letteratura apocalittica nasce per aiutare a sopportare l’insopportabile”. Forse tutta la poesia, l’arte tutta, in tal senso può essere definita apocalittica. Lo possiamo affermare con Shiller il quale in Sul fondamento del piacere prodotto dagli oggetti tragici sostiene che il fine dell’arte è il piacere, dove il piacere non è ridotto al godimento, alla semplice sensazione, ma si eleva al grado di riflessione.  È questa accezione del piacere a placare le ansie in momenti di estrema crisi, questa accezione a fornire una speranza e un indirizzo.

Semeraro, nel redigere la propria apocalisse, si riferisce esplicitamente a quella di Giovanni, ovvero a quello scritto di natura escatologica che vide la luce intorno agli anni 90 D.C. .  Il testo era destinato a incoraggiare i fedeli delle sette chiese dell’Asia minore che al tempo subivano persecuzioni da parte delle autorità romane.

Le criticità dei nostri tempi sono altre, di non difficile individuazione per grandi temi: il pericolo pandemico, i guasti portati dal cambiamento climatico, lo sfruttamento della natura da parte dell’uomo, dell’uomo sull’uomo, i conflitti armati.

L’apocalisse di Semeraro attraversa e si lascia attraversare da queste piaghe. Ma l’autore non è un profeta: è un artista, e da artista ci offre la sua apocalisse affrettandosi a definirla apocrifa con un gesto di autovalidazione.  La presa di posizione colloca la sua versione esattamente dove l’autore vuole che si ascriva: nel campo dell’umano, ovvero nella sfera afferente l’individuo e la polis.

Questo è chiarito da subito: il prologo ha un attacco di deandreana memoria:  “Ho avuto fame, ho avuto sete/sono stato forestiero/nudo, malato, carcerato/(…) /sono stato Cristo,/messo in croce, dimenticato/sono stato uomo tra gli uomini,/carnefice e santo,/(…)/sono stato sugli alberi/nelle caverne, sotto le stelle,/sono morto di freddo”. In questi primi versi di Semeraro, l’Agnello è, senza revisioni rintracciabili nella Bibbia, il figlio dell’uomo. Semeraro, insomma, esordisce come De Andrè chiude il denso concept album La Buona Novella: con un  Laudate Hominem che rafforzerà appena più giù: “Posso dire che mai fui rapito/né trafitto da luce divina/Guardavo ad altezza umana/dritto al mistero del presente/alla sua quotidiana apocalisse”.

Come La buona novella, l’apocalisse di Semeraro è un’opera apertamente apocrifa e politica, un’opera che interroga la polis e lo fa senza sosta, in più punti. Nel primo sigillo (Babilonia), Semeraro denuda la decadenza della nostra civiltà volta alla dittatura del mercato, alla discriminazione, alla paura creata artificiosamente per il diverso, alla distrazione di massa dettata dal comandamento che prescrive il godimento immediato e materiale: “Turgida città che brucia;/suda, rolla, s’arroventa/sgarra e sbotta, si bagna di libidine”. In questo passaggio il Semeraro, per altro, omaggia la lingua rutilante, vischiosa e infuocata di un padre della poesia della nostra terra, un padre della militanza poetica: Antonio Verri. In questo primo Sigillo, riecheggiano i verriani Trofei della città di Guisnes: “Guisnes e così ben diffusa nelle luci serali dei suoi viali, nella pioggia battente, nel languore delle sue prostitute (…) Guisnes grassa e invaghita, curiosa, lussuriosa, pupiesca, è così grandiosa, è così vorace, è così impura e cancerosa e depravata e marcia e sifilitica (…) C’è da disperarsi, è così luccicante (…) la città ve la lascio, è tutta vostra, una volta era rossissima, porosa, e si rifletteva nel mio occhio; nelle misurazioni; (…) Vi lascio la città, consumate quel che vi pare (…) correte, consumatevi”.

Che questo scrittura di Semeraro interroghi la polis lo rintracceremo ancora e in maniera pregnante nel terzo Sigillo, in quel Hic desinit cantus che chiama a confortare la causa di questa apocalisse Pasolini e per, il suo tramite, Socrate.  Citiamo due figure emblematiche del rapporto tra intellettuale e sistema societario, due figure estreme in cui la condanna all’esilio coincide con la morte fisica dei portatori di un pensiero critico e divergente. L’intellettuale e il filosofo sono convocati dall’autore con questo riferimento al testo pasoliniano Saluto e augurio.

Questa scelta non chiude Semeraro in un esito negativo; finché abbiamo memoria dei cattivi maestri, possiamo avere speranza, e la speranza, ribadiamo, è cifra tematica ineludibile di un testo apocalittico. La cifra stilistica è invece la visionarietà, e Semeraro ci consegna un testo di audaci visioni, un testo in cui le immagini fluiscono in caleidoscopi archetipici che colpiscono i nessi prelogici del lettore. Alcuni passaggi sfolgorano e devono essere assunti come totalità, non il singolo verso ci orienta, non il singolo significante astratto dalla torrenzialità fonica e delle immagini.

D’altro canto l’uomo de I sette palazzi celesti,  l’artista Anselm Kiefer in L’arte superarà le sue rovine sottolinea: “dobbiamo considerare le rovine della storia non come una fine ma come un inizio. L’opera d’arte stessa è un inizio, un salto, un balzo in avanti, anche se è offuscata (…)”. l’arte nella visione di Kiefer si compie pienamente nel tentativo mitopoietico di una nuova cosmizzazione, ovvero una riassegnazione dell’uomo ai suoi luoghi i quali altro non sono poi che le sue narrazioni. Federico Vercellone in Abitare l’archetipo. I nuovi simboli di Anselm Kiefer avvisa che l’arte “costituisce una sorta di terapia del simbolo che è decaduto a mero segno, a veicolo di una comunicazione univoca (…) non bastano il cielo e la terra, è necessaria anche la bellezza, la sola che nominando un luogo, ci indica che esso è abitabile”.

Rileggiamo: la visione delle rovine della storia come inizio; lo sguardo offuscato; una nuova cosmizzazione; la necessità di una terapia del simbolo; l’urgenza di nominare un luogo altro. Il genere apocalittico contiene queste istanze di forma e di sostanza e il testo di Semeraro si articola in coerenza. La stessa ciclopica installazione I sette palazzi celesti  ha a che fare con la prova del poeta: sette torri cadenti, sette fantasmi architettonici, ruderi e vestigia di un vago passato, confuso fra mito e storia di tragedie recenti o contemporanee.  Sette costruzioni corredate da una ricchezza di elementi archetipici e da una chiara simbologia ebraica; pericolanti e comunque svettanti, come tese ad una nuova alleanza. Insomma: una maestosa e austera rappresentazione teatrale dell’apocalisse. La sua maestosa staticità, con altra lingua, restituisce il portento della magmatica scrittura che Semeraro sa rendere nella sua apocalisse.

Alla fine di questa rovente giostra escatologica, tuttavia, non si resta fuori le mura: Semeraro non fa mistero della sua attiva speranza. Leggiamo nel primo sigillo: “è tempo di aprire nuove porte/che l’uomo non si chiuda dentro una patria/che il contadino non mangi più spine/tempo di spartire come fratelli/è tempo che ogni frutto cada quando vuole”; leggiamo quindi l’invito a tornare a tempi più naturali, l’invito a restare aperti all’alterità, a sovvertire l’ingiustizia. L’apocalisse di Semeraro è un testo che in più parti invoca una dimensione pienamente antropologica non distinguendola da quella ambientalistica. Non compiendo l’errore tipico di chi parlando di natura crede di non parlare dell’uomo.

L’epilogo riafferma queste istanze ma è nel VII Sigillo che troviamo il motivo che spinge Semeraro a far seguire alla sua apocalisse il secondo scritto di questa opera: Altare Materno. In questo punto leggiamo: “immersa nella pace dell’origine/sospesa in un liquido materno/come se ogni cosa tornasse alla sua madre/per un attimo eterno tutti sentimmo il bene/fummo tutti stelle appese al cielo”. La dimensione edenica e ri-generatrice a cui tornare è la Madre.

“Solo per te madre/torno al destino/che sia tardi”, così si avvia Altare materno, versi nei quali la figura della madre è riverberata come Lare. Ma madre in latino è mater, etimo di materia e i versi che seguono sono coerentemente intrisi di una spiritualità domestica che si dipana nello spazio esterno alla casa: “Sei la mia pietra lavorata dalle tristezze/il grano guerriero d’aprile/la terra aperta con le unghie/la camminata a cercare asparagi e cicorie/a tagliare il gambo e la foglia”.

Lo spazio oltre la casa è ricostruzione e memoria delle origini contadine dell’autore. È ritorno, uno dei ritorni già auspicati nell’Apocalisse. S’intravede qui una radice tematica tipicamente salentina a matrice tellurico-materna che attraversa la poetica Bodiniana rintracciabile pure nella poetica verriana. Una terra genesiaca che Bobini finirà per rielaborare in negativo e in Verri si estenderà per farsi genesi delle totalità dell’esperienza umana e poetica: “Quando stavo con lei, figlio com’ero di una dea dell’aria, quando camminavo con lei, non c’era necessità di sprecar parole, erano gli occhi a raccontare, era negli occhi che riuscivamo a fermare, in un attimo di mille parole, gli eccessi, gli scoppi, lo smorire, la meraviglia”. Fin qui Verri in La cultura dei Tao, qui Semeraro invaghito da un sentimento panico: “Madre madreperla madresanta/madrelingua madrestrada madremaestra/madreterna madregloriosa madreterra/di materia luminosa/luce che ti fai toccare/latte primitivo/che ancora zampilli nei miei sogni”.

Questa con-fusione tra la madre e la terra ci restituisce una nozione di patria con viscerale accezione emotiva, non la fredda dimensione nazionale instaurata dal concetto di confine, ma il luogo degli affetti, della lingua degli affetti, l’heimat.

“Heimat non è solo paesaggio e architettura, ma anche molte cose che si possono trasportare oltre i confini, come la lingua, le storie, le poesie, le preghiere, le ricette, le immagini o la musica”, afferma Aleida Assmann. Chi perde l’heimat resta senza paese, resta spaesato. Capita a chi resta nella propria terra natale (a causa delle spinte di questo nostro tempo globalizzante), capita con maggiore veemenza e carico di tragedia a chi lascia fisicamente la propria terra senza possibilità di scelta circa il fatto in sé, i tempi e i modi. E la cifra politica di Semeraro si ricarica: non vi è, in effetti, alcuna separazione nella sua sensibilità tra il più profondo intimismo e la sfera civile.

La tragedia dell’immigrazione allora ci viene resa con il testo che chiude quest’opera: Canto notturno di un migrante dell’Asia. Si tratta di una chiusura che hai i suoi nessi, anticipata da quanto abbiamo detto a proposito del binomio madre-terra, ma anche dai versi che, contenuti nell’Apocalisse apocrifa, chiedono giustizia per le vittime dell’induzione alla migrazione: “sigilla Babilonia/chiude i suoi porti/spranga le porte allo straniero (…) è tempo che di aprire nuove porte/che l’uomo non si chiuda dentro una patria (…) tempo di spartire come fratelli”.

Con questa terzo testo Semeraro opera una chiusura del cerchio a più mandate sollecitandosi sul piano contenutistico e formale: Canto notturno di un migrante dell’Asia, come l’Apocalisse è un ardito esperimento di riscrittura. L’autore adesso si misura con Leopardi e riscrive Canto notturno di un pastore dell’Asia.

Mantenendo la struttura del teso originario, mette al servizio del proprio scopo i temi Leopardiani:  l’infelicità dell’uomo diventa qui l’infelicità di una umanità di secondo ordine, ma nella sua eziologia Semeraro non chiama in causa la natura matrigna. In Semeraro la natura resta madre da benedire, madre da preservare, da compatire, e l’ingiustizia è annoverata tra gli ordini del giorno della sua agenda poetica civile. Rintracciamo facilmente quanto stiamo sostenendo in questo teso e denso passaggio: “dove fallisce ogni umano progresso/dove perisce ogni giustizia/sotto le mura taglienti dei nostri confini/chiusi nelle nostre patrie morte/…avere in dote un destino funesto/in dote l’unica colpa/la martoriata terra in cui un dì si nasce”.

Un nuovo punto d’incontro tra i due autori è rintracciabile nella individuazione di un valore nel modo di vivere che si oppone alla modernità. Semeraro non fa mistero di diffidare dei suoi tempi e Leopardi compose il suo Canto notturno riflettendo sulla saggezza pura attribuita ai primitivi in antitesi alla corruzione dei moderni suoi contemporanei.

È un esperimento di riscrittura interessante, originale quantomeno in poesia. In teatro, arte in cui Semeraro esprime altri talenti attoriali e autoriali, la riscrittura costituisce una tradizione. Ma sta al genio dell’arte cimentarsi con l’invenzione e l’equilibrismo. Tra il noto e il nuovo, tra il dato e il possibile. Tra lo stato delle cose e il loro sovvertimento.

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