La zona d’interesse (Tit. or. The Zone of Interest)

Regia:  Jonathan Glazer

Con: C. Friedel, S. Hüller, J. Karthaus, L. N. Witte

Gran Bretagna, Polonia, USA, 2023, Durata: 105’

 

di Italo Spada

 

Il termine esatto sarebbe “soggettiva” che, nel linguaggio filmico, sta ad indicare l’espediente di un cambio di prospettiva con la macchina da presa che si sostituisce agli occhi del personaggio. Con la stessa parola si potrebbe definire anche la visione dello spettatore, perché tutto quello che un film narra diventa interpretazione “soggettiva”.

Prendiamo il caso del film La zona d’interesse, quarto lungometraggio dell’inglese Jonathan Glazer, Oscar 2024, premio speciale della giuria a Cannes 2023, “il film del secolo” secondo Alfonso Cuaròn, “il film più importante fatto sull’Olocausto negli ultimi 30 anni” secondo Steven Spielberg.

Cos’è? Un documentario su un avvenimento storico che ha fatto registrare un milione e mezzo di vittime? La biografia di un personaggio realmente esistito? La trasposizione filmica del romanzo di Martin Amis? Un thriller?

Il fatto che non ci sia una vera e propria trama, che alterni spesso campi e controcampi, che inserisca immagini oniriche della fiaba di Hansel e Gretel e che il finale si presti a più interpretazioni avvalora la tesi della soggettività e induce a considerarlo “un test per valutare la sensibilità degli spettatori”.  Ipotesi avvalorata dalle pause (dove lo schermo diventa nero e si sentono solo voci, rumori, musica) e dall’inserimento dei versi di “Raggi di sole” di Joseph Wulf, sopravvissuto all’Olocausto. I nostri cuori / non hanno ancora freddo / anime in fiamme / come il sole splendente, suonano come un monito: «riflettete, spettatori comodamente seduti in una sala!»

  

Riflettiamo, allora, interpretando l’invito nel doppio senso di pensare e rinviare la luce.

 

Pensare, cosa? La storia narrata è riassumibile in poche righe.

Anni Quaranta. Rudolf Höss è il direttore del campo di concentramento di Auschwitz dove vive, con la moglie Hedwig e cinque figli, in una bella casa con giardino, piscina, orto e una numerosa servitù. La vita scorre tranquilla, anche se oltre il muro di cinta qualcuno urla, i cani abbaiano, le guardie sparano… Qualcosa si inceppa quando Rudolf viene temporaneamente trasferito in Ungheria. La moglie protesta e non vuole lasciare quel posto dove i suoi piccoli giocano e stanno all’aria aperta. La sua è una famiglia normale; così come, secondo il suo modo di intendere, sono normali la messa in atto della Soluzione Finale, i forni crematori, le esecuzioni di massa. L’ultima telefonata tra Rudolf e Hedwig avviene a notte fonda: lui le racconta di Himmler che lo ha omaggiato e del suo costante pensiero di come poter gasare gruppi di detenuti chiusi in una sola stanza, lei gli risponde che è stanca e vuole andare a dormire. Con Rudolf che scende le scale, si blocca, vomita – come ha spiegato il regista – la  cenere delle persone che ha aiutato ad uccidere, si conclude la storia, ma non il film. La piccola luce nello schermo buio diventa lo spioncino di una porta che si apre e ci proietta nell’oggi.

Entriamo con gli addetti alla pulizia del museo di Auschwitz per visitare ciò che resta della banalità del male: vetrine con montagne di scarpe, vestiti, oggetti, foto alle pareti, forni crematori, …

 

Non è la prima volta che il cinema si occupa dell’Olocausto. In questo caso, però, è abbastanza chiaro che l’intenzione di Glazer è quella di contrapporre la percezione soggettiva di una famiglia al dato oggettivo e storico. Il muro che separa la famiglia Höss dal campo di sterminio può impedire la visione di uomini e cose, ma non quella del fumo che si sprigiona dai forni crematori. Lasciamo Rudolf al suo rigurgito di coscienza ed Hedwig alla sua insonnia per diventare annichiliti visitatori. È da lì che bisogna rinviare la luce per impedire che la memoria svanisca.

Ho insegnato Storia nelle scuole superiori per 40 anni. Due ore a settimana,  otto ore al mese, 48 ore in un anno scolastico. Alla fine dell’anno scolastico non facevo altro che ripetermi: che cosa sarà rimasto nei miei alunni di tanti avvenimenti, date, nomi?  Solo quando ho aderito ai viaggi della memoria ad Auschwitz  (gennaio 2003 e ottobre 2004) ho capito di avere fatto, per me e per loro, la cosa più importante: vivere la Storia. Sono saliti in cattedra gli ultimi sopravvissuti (Shlomo Venezia, Piero Terracina, Giuseppe Di Porto, Sabatino Finzi, Settimia Spizzichino, le sorelle Bucci) e hanno proiettato “spezzoni” della loro vita. Nessun astio nelle loro parole – «Io non voglio emettere giudizi – disse Shlomo Venezia – ma voglio che si sappia quello che è accaduto. Voglio raccontarvi quello che ho visto con i miei occhi.»

Non ho mai visto i miei alunni così partecipi ed emozionati e, a distanza di anni, mi dicono che quella lezione la stanno tramandando ai loro figli. Ora, forse, è più chiaro il significato di rinviare la luce.

 

Non entro più in classe da qualche anno. Ma se potessi chiedere a Kronos di fare marcia indietro, organizzerei di certo una matinée per la visione di questo film, aprirei un dibattito, inviterei i miei alunni a “scavalcare” il muro dell’indifferenza e aggiungerei, nella sequenza della pulizia delle vetrate del museo, un’inquadratura che mi porto dentro da anni: quella di una bambola con la gonna a quadri bianchi e rossi e i capelli ricci. Apparteneva a una bambina meno fortunata dei figli di Rudolf e di Hedwig; gliel’hanno tolta i nazisti del campo mentre, insensibili al suo pianto, la trascinavano nelle docce con le braccia alzate.

La sua colpa? Non chiamarsi Höss.

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