Il protocollo di Teodoro  di Ivan Solla e Tiziana Cetera, Gelsorosso, Bari 2021

di Trifone Gargano

 

Thriller intriso di noir, con ritmo apparentemente piano, ma coinvolgente, dal momento che, benché si tratti di opera prima (a quattro mani), e la narrazione proceda, di pagina in pagina, in modo fluido, in realtà, questo romanzo mostra a chi lo legge, che i suoi due autori posseggano già una matura padronanza della scrittura, comprese le regole del (duplice) genere letterario. Questa è la prima considerazione che vien da fare, a lettura ultimata, e cioè che la sua dimensione linguistico-scritturale sia precisa (pochissimi, del resto, i refusi presenti nel libro, che ho notato, ovvero le sbavature morfologiche), ben governata dai due autori. Il che, oggi, in tempi di sciatteria linguistica, compresa quella espressiva, non è poco. Anzi.

 

In esergo è collocata una frase di Luigi Pirandello (in forma di tweet), sulla inconoscibilità nostra, agli occhi altrui, e, quel che più spiazza, ai nostri stessi occhi:

 

«Di ciò che posso essere io per me, non solo non potete saper nulla voi, ma nulla neppure io stesso»

 

La frase citata, che è tratta dal testo del celeberrimo romanzo pirandelliano Uno, nessuno e centomila, rinvia al tema della indicibilità, che richiama, nella memoria del lettore, Dante, il nostro Classico per eccellenza, e l’incapacità, tutta umana, di raccontare e di raccontarsi compiutamente. Cito Dante non a caso, perché, come potrà verificare facilmente il lettore di questo Protocollo di Teodoro, la presenza dantesca, attraverso i (continui) riferimenti al testo della Commedia, si affaccia già nella pagina incipitaria dell’opera:

 

Questa è la storia di un uomo qualunque che a trentacinque anni, nel bel mezzo del cammin di sua vita, inizia un viaggio all’Inferno. Non per purificarsi, ma per dannarsi e trovare in quella perdizione compiacimento e riscatto. [p. 7]

 

La eco dantesca è preceduta, pochi righi sopra, dall’utilizzo di altri vocaboli parlanti: «buio – voragine oscura – lo sdoppiamento tra il viator e l’autore – la mano che aiuta e che svolge, dunque, semanticamente il ruolo di Virgilio – ecc.». Ad ogni modo, l’utilizzo di Dante non è ascrivibile soltanto a una certa vicinanza tra questo romanzo e il Classico della nostra tradizione letteraria più alta, ma ne segna anche una notevole distanza. Questo odierno viaggiatore infernale, infatti, tal Teodoro Greco, non si è smarrito, ma si è (irrimediabilmente) perso; non effettua il viaggio per purificarsi e per giungere alla Grazia della salvezza; bensì, al contrario, per dannarsi, proprio perché in tale perdizione, egli troverà compiacimento e riscatto; l’espressione «sua vita» non può legarsi a quella dantesca («nostra vita») perché non coglie, come invece Dante aveva fatto nel suo poema, la grande valenza del gioco tra la singolarità dell’esperienza umana (l’io) e la moltitudine collettiva del noi, in forza del quale gioco (che rinviava, sempre in Dante, all’uno e al tre, cioè al mistero divino cristiano dell’unità e della trinità di Dio), la vicenda dell’uomo Dante, sviatosi, diventava, per sé stessa, esemplare, modello di redenzione, agli occhi di tutti gli altri uomini. Nel caso di Teodoro, invece, tutto resta confinato nella dimensione dell’io, dell’individualismo, che è la dimensione tipica del nostro tempo, cioè, di un mondo nel quale nulla più risplende, nel quale non c’è alcuna luce, alcuna grazia da raggiungere. Talvolta, la scrittura di Solla e Cetera indulge in un certo gusto barocco per il paradosso, che non stona, ma che incuriosisce, con il rovesciamento di condizioni e situazioni (anche ricorrendo a bisticci verbali, come, per esempio: «la perfezione nell’imperfezione», a p. 19; ovvero, l’affermazione, dopo il secondo omicidio commesso, che egli non si senta una «bestia», ma, paradossalmente, un «essere mostruosamente superiore», p. 27). Senza voler spoilerare il romanzo, il lettore potrà verificare da solo la fondatezza di queste mie affermazioni, una volta giunto all’ultima pagina del libro.

 

Un’altra dimensione del citazionismo dantesco, cioè del rapporto di questo romanzo con il Testo eponimo della nostra tradizione letteraria, che, per giunta, limitatamente alla prima cantica, è l’eterno modello di ogni scrittura infernale nei secoli successivi, è rappresentato dal frequente ricorso al lessico basso e turpe, esattamente come si legge nell’Inferno di Dante, a partire dal canto III, caratterizzato da «orribili favelle / parole di dolore / accenti d’ira»:

 

rabbia – abbaiare – squallido – irritava – merdoso pasto – pioggia – ira – squallore – suono cadenzato della pioggia – vendetta

 

Come in Dante, i riferimenti a personaggi o ad avvenimenti, come dire, contemporanei, facilmente riconoscibili dal lettore (medievale e post-moderno), alla stessa maniera, anche nel romanzo di Solla e Cetera gli agganci con la storia contemporanea (il 1999 è l’anno di ambientazione della storia) avvengono attraverso la citazione di vicende della cronaca nera, come, per esempio, il riferimento agli efferati omicidi commessi, tra il 1997 e il 1998, da Donato Bilancia, serial killer che in quei pochi mesi aveva ammazzato ben diciassette persone. Teodoro Greco ha sentito parlare di Bilancia e della sua storia criminale in Tv, all’interno della trasmissione “Blu notte”, condotta, tra il 1998 e il 2012, dallo scrittore e giornalista Carlo Lucarelli, occupandosi, appunto, di delitti efferati, di misteri insoluti, di omicidi seriali, ecc., della storia italiana più recente.

Inizialmente, anche le attenzioni criminali di Teodoro si riverseranno, alla stessa maniera di Donato Bilancia, su ignare prostitute, o disperate donne “invisibili”, prelevandole dalla strada, o da altri luoghi miserabili. Subito dopo, però, nella vicenda narrativa di Solla e di Cetera, il piano criminale di Teodoro Greco riceve un sussulto macabro, ed esoterico, intrecciandosi con simbologia e riti demoniaci, sotto il segno della diavolessa Lilith. Teodoro sente di essere posseduto progressivamente da Lilith; anzi, sente di essere Lilith, nel corpo dell’inetto Teodoro, avviandosi, così, a percorrere la Valle della Geenna, senza ritorno. A suggello (macabro) di questa metamorfosi, Solla e Cetera citano (ancora da Dante) il caso del pescatore Glauco, che, mangiando una certa erbetta, si fece divino (si vedano i versi 67-69, nel canto I del Paradiso). Qualche pagina dopo, Teodoro-Lilith, per giustificare la sua incontenibile sete di sangue, farà esplicito riferimento alla lupa dell’Inferno dantesco, sempre «carca nella sua magrezza» (p. 41). Dopo aver commesso il primo omicidio, tanto gratuito quanto crudele, l’io-narrante della storia, cioè Teodoro-Lilith, si abbandona in una lunga serie di teneri ricordi infantili, sulle avventure e sulla solidarietà degli anni della fanciullezza, che lo legavano alla coetanea Angela, con la quale condivideva scampagnate e piccole (e innocenti) avventure, nella cornice bucolica della campagna tarantina (magnogreca). Sembrano ricordi innocenti e del tutto sganciati dalla storia degli omicidi seriali che stanno partendo, tra l’altro, raccontati, questi ricordi con un registro stilistico dolce, tipico dei (bei) ricordi d’infanzia, ma che, come potrà accertare il lettore, avranno un senso e una ben precisa collocazione strutturale, nell’ordita trama del romanzo, grosso modo a metà della vicenda, con la comparsa della figura dell’antagonista.

 

L’altro elemento di forza (e di bellezza) di questo libro, che balza, quasi a fine lettura, agli occhi di chi legge, è, infatti, la geometrica trama della vicenda, con tutti i dettagli, macabri e/o semplicemente narrativi, che trovano la loro esatta collocazione. Nulla, ma proprio nulla, è lasciato al caso. Tutto, dai nomi delle vittime, alle date in cui gli omicidi vengono commessi, ai dettagli dello scempio compiuto sui cadaveri, alle pose e ai luoghi in cui i cadaveri vengono rinvenuti, di volta in volta, tutto, ma proprio tutto, ha una ben precisa spiegazione, che è stata, evidentemente, a lungo studiata, con lucidissima e criminale intelligenza. Alle pp. 28-30, infatti, Teodoro-Lilith, citando quel Vitangelo Moscarda protagonista del romanzo di Luigi Pirandello già messo in esergo, lucidissimamente, definisce, per il corretto prosieguo del suo piano criminale, ben cinque precetti (o «Tavole della Legge») e sette abilità, che deve rispettare scrupolosamente.

Teodoro-Lilith abbandona i corpi senza vita delle sue vittime dopo averli plasmati (grazie alla rigidità che a poche ore di distanza dall’avvenuto decesso prende i corpi umani), in pose ch’egli giudica artistiche. Ciascun cadavere è un capolavoro d’arte, della sua arte criminale. I cadaveri, quasi dei selfie macabri (alla stessa maniera, manco a dirlo, ancora una volta, dei selfie danteschi), sono riconoscibili (in eterno):

 

Mi allontanai controvoglia dalla creazione artistica che avevo forgiato. La fotografai con lo sguardo… [p. 49].

 

Questo rito macabro, con i riferimenti alle pose plastiche artistiche, viene ripetuto ogniqualvolta Teodoro-Lilith abbandona la sua installazione, affinché venga rinvenuta e affinché essa possa dar testimonianza, possa parlare visivamente a tutti  (è il «visibile parlare» di Dante, in Pg., X, 95), della sua arte (assassina):

 

Il tempo predispose quel corpo ad essere plasmato da me. Il suo scultore. [p. 67]

 

Il riferimento (colto), per queste macabre sculture fatte di cadaveri, è al film horror/thriller La casa di Jack, del 2018, del regista Lars Von Trier, nel quale, appunto, il serial killer realizza, con i cadaveri delle sue incolpevoli vittime, una scultura “vivente”, una installazione, nella convinzione, come accade anche nel romanzo di Solla e di Cetera, che ogni suo omicidio sia un capolavoro d’arte.

 

La geometrica precisione dei dettagli di questi omicidi seriali, compiuti da Teodoro-Lilith, spinge a non credere alle parole che, in chiusura di libro, in Postfazione, hanno scritto i due autori, e cioè:

 

Abbiamo cominciato così, quasi senza pianificare nulla [p. 102].

 

Non comprendo le ragioni artistiche che abbiano spinto i due (bravi) autori di questa storia, Ivan Solla e Tiziana Cetera, molto (ma molto) ben raccontata, a voler diffondere l’idea di una loro (presunta) spontaneità di scrittura, in ossequio a un (vecchio) mito romantico dell’estetica (occidentale), quasi che la scrittura geometrica, che ben si addice proprio a un thriller con tinte noir, qual è, appunto, Il protocollo di Teodoro, non sia esempio (mirabile) di prosa d’arte. Non comprendo (e non condivido) questa ritrosia (questo senso di vergogna) che s’intravede in questo passaggio della Postfazione, nei confronti della loro prosa geometrica, e sottolineo, invece, di contro, l’eccellente innesto, in alcune pagine finali della vicenda, del pluri-stilismo e del pluri-linguismo, che è tipico delle scritture gialle, con i resoconti radiofonici delle indagini della Polizia che vengono riportati. In altre pagine, invece, spiccano passi di descrittivismo lirico, con sapiente scavo psicologico del personaggio di turno (rinvio, a mo’ di esempio, a p. 72, dal capoverso «Un pomeriggio, durante i pedinamenti…», fino a «era ciò che le restava di un amore assassinato»). Ma gli esempi potrebbero essere tanti.

Chiudo questo mio invito alla lettura del romanzo, cedendo anch’io al gusto per il paradosso, per il rovesciamento. La storia è ambientata nell’estate del 1999. Ebbene, se provassimo a rovesciare i numeri che compongono questo anno, verrebbe: 6661. Cioè, il Diavolo (666) e Dio (1). Male e Bene, faccia a faccia. Come accade, del resto, di leggere in (quasi) tutte le pagine del romanzo, al quale auguro la fortuna di avere tanti lettori (e di diventare, quanto prima, il soggetto di un film).

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