“I sudditi del dio rosso” di Grazia Serra Sanna.

di Giorgia Loi

 

Ci sono libri che non si possono leggere tenendoli solo in prestito. Mentre li sfogli, senti che ti appartengono da prima di essere scritti e devono stare lì, sullo scaffale, pronti a soccorrerti se necessario, per tutte le volte che sai già andrai a cercare fra le pagine quelle parole scritte per te.

Così è “I sudditi del Dio Rosso”, dell’iglesiente Grazia Serra Sanna, una penna divinamente ispirata, poetica, romantica, abile tessitrice di parole, una jana intenta al telaio d’oro degli antichi racconti di Villa di Chiesa, a metà strada fra storia e leggenda, come dice lei stessa nella prefazione.

È un romanzo di formazione, questo, con una splendida cornice etnografica perfettamente incastonata nella  narrazione, che scorre veloce e limpida attraverso le vicende dei suoi personaggi, tutti perfettamente tratteggiati e coprotagonisti di un destino che si preannuncia difficile, segnato profondamente dalle convenzioni sociali, dai pregiudizi, dalla durezza del lavoro, ma anche scandito dalle feste, come il carnevale e la festa di Nostra Signora del Buoncammino.

Generosu è il personaggio cardine, ma sarebbe azzardato relegare a comparse tutti gli altri che si muovono con lui e attorno a lui. Col suo “sorriso da satiro” sembra una creatura del bosco, un tutt’uno con gli elementi naturali: la fonte, l’acqua del Rio Canonica, gli astori che volano alti e nidificano sugli spuntoni di roccia del Marganai. Sulla piana di Montintru e lo sfondo del Cuccuru Contu, il ragazzo parla con gli usignoli e sente il richiamo dei tordi, sdraiato sul fianco del monte che appartiene ad Aréga e Laóu, suona lo zuffolo dei suoi sogni più arditi. L’amicizia tra Generosu e il giovane servo pastore Tuniné ha a tratti i risvolti romantici e trasognanti dei protagonisti de “L’amico ritrovato” di Fred Uhlman. Un legame molto forte che si sviluppa nel concetto di attesa: ogni giornata è vissuta nell’attesa spasmodica dell’incontro con l’amico. Da qui la lezione di Generosu di ascendenza leopardiana: la gioia si realizza nell’attesa del piacere.

A  volte sembra di essere dentro il mito di Orfeo ed Euridice, a volte nella prima ecloga di Virgilio dove Titiro-Generosu se ne sta all’ombra di una sughera a fantasticare.

Ma soprattutto, ogni personaggio calca da comprimario la scena, protagonista assoluto dell’episodio narrato e, insieme, dell’intera storia. C’è Aréga, “sa merzej”, la padrona, vive chiusa in una sorta di prigione dorata dove al lettore è chiaro sin da subito che ha congelato i propri sentimenti per qualcosa di misterioso, un nodo narrativo che si scioglierà solo nelle pagine finali. Laóu, tanto giovane e aitante quanto dedito al vizio del bere e delle donne, la cui personalità controversa, poliedrica ne fa un personaggio aperto, genuino, che nella pubblica piazza, per difendere la dignità di Veronica, è capace di smontare pezzo per pezzo tutte le ipocrisie di una comunità di contadini e massaias, chiamando per nome i loro vizi, tenuti nascosti sotto la falsa cortina di perbenismo del ceto sociale. E poi c’è Veronica, figlia di un servo e di una ricca caduta in disgrazia, avvenente nella sua povertà, perennemente scarmigliata e scalza, vestita sempre della gonnella rossa che la contraddistingue, serva, eppure incapace di servire perché ha ereditato dal sangue di sua madre l’attitudine ad essere servita. Chi legge di lei non può non amarne la forza e la debolezza che coesistono perfettamente nel suo schivare la perfidia di una comunità che l’ha già condannata dalla nascita al suo destino di reietta ed esclusa. È lo specchio di una società arcaica che stigmatizza e condanna imprimendo il marchio sociale: neppure la morte interviene a pareggiare i conti restituendo quello che la vita ha sottratto.

La scrittrice traccia con questo libro una sorta di profilo genetico dell’Iglesiente, vizi e virtù descritti con la leggerezza che la letteratura consente e sa regalare. Tutto ha il retrogusto dolce-amaro e un po’ nostalgico di un tempo che è stato e che resterà indelebile in ogni pietra, in ogni strada, in ogni rovina di un’Iglesias che non c’è più, ma che sente ancora prepotentemente viva chi non si accontenta di essere un passante distratto e guarda con disincanto ai dettagli.

Non è finito come mi sarei aspettata e, all’ultima pagina, avrei voluto ancora sfogliare per leggere quell’epilogo che avrei desiderato, come capita nella vita vera, e che non è arrivato.

Per la scrittrice avrei tante domande, che non potranno essere soddisfatte perché ci ha lasciato prematuramente rendendo, se possibile, ancora più di valore quest’opera di alta letteratura che dovrebbe essere diffusa, letta, commentata, più e meglio di altre che circolano senza meriti.

 

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