La vita davanti a sé

Regia: Edoardo Ponti

Con: S. Loren, I. Gueye, R. Carpentieri, M. Rossi, A. Zamora, B. Karimi

Italia, 2020. Durata, 94’

di Italo Spada

 

La Cronaca. Nel 1975, lo scrittore francese di origine lituana Roman Gary pubblica, con lo pseudonimo di Emile Ajar, il romanzo “La vita davanti a sé”. Due anni dopo, con la regia dell’israeliano Moshé Mizrahi e con Simone Signoret protagonista, il romanzo diventa film, vince tre Premi César, un David di Donatello e l’Oscar come miglior film straniero. Nel 2020, Edoardo Ponti, al suo secondo lungometraggio dopo “Cuori estranei” (2002), realizza un remake italiano mantenendo alcune caratteristiche, spostando l’azione dalla banlieu di Parigi a Bari, modificando le atmosfere ed eliminando la narrazione in prima persona. Protagonista Sofia Loren (la mamma è sempre la mamma) che ritorna sul set dopo 10 anni di latitanza.

La domanda. La solita: meglio il romanzo o le due trasposizioni filmiche?

Le gare, come ben si sa, hanno valore quando i contendenti hanno grosso modo le stesse chances di vittoria e quando la giuria è imparziale. Ma qui siamo di fronte a due film che devono fare i conti con la migliore trasposizione filmica che si possa immaginare: la nostra. Chi legge, anche senza volerlo, diventa sceneggiatore, costumista, scenografo, regista e produttore di se stesso. E siccome “ogni scarrafone è bello a mamma sòja”, anche la giuria è di parte. Ergo: la gara non esiste.

Esiste, tuttavia, la facoltà di riflettere e di commentare.

Partiamo, allora, dalla trama a beneficio di chi non ha letto e visto. Ed è subito perplessità. Quale trama? Romanzo, film 1 o film 2? Scegliamo la versione di Ponti.

Momò è un bambino senegalese che è arrivato in Europa non si sa come e che, come tanti altri bambini, pur avendo la vita davanti a sé, è in balia di se stesso. Quando viene affidato a Madame Rosa – che ha la vita alle spalle, è ebrea sopravvissuta all’Olocausto, ex prostituta e vive con gli scarsi proventi che riesce a racimolare prendendosi cura dei figli degli altri – non smette di compiere furtarelli e scippi e finisce tra le grinfie di uno spacciatore. Dopo l’iniziale diffidenza, il rapporto tra i due diventa confidenza e reciproco affetto: Madame Rosa trova in Momò il figlio mai avuto, Momò trova in lei la madre che ha sempre desiderato. Quando Madame Rosa presagisce la fine della sua vita, strappa a Momò la promessa  di evitarle il ricovero in una struttura pubblica. Vuole chiudere gli occhi per sempre nella cantina del palazzo dove è riuscita a crearsi un esclusivo segreto “rifugio”. Promessa che il ragazzino manterrà con una coraggiosa (e in verità poco credibile) incursione-rapimento in ospedale, eludendo la sorveglianza del personale medico.

Non è chiaro il motivo per il quale Edoardo Ponti – che aveva dichiarato  «Essendo un libro molto bello non volevo lasciare fuori neanche una pagina» – abbia stravolto il pre-finale. Così come appare nel romanzo non gli avrebbe proibito di certo (sono sempre parole sue) «di focalizzare l’attenzione sul rapporto di amicizia tra Madame Rosa e Momò e di portare in primo piano due esseri che si somigliano nonostante le grandi differenze». Ma rispettiamo la sua scelta, sorvoliamo e concentriamo la nostra attenzione su ciò che Gary, Mizrahi e Ponti hanno in comune: un messaggio di accoglienza del diverso tramite il reciproco sostegno. Le strade per abolire le differenze sono tante; tutte, però, implicano una precisazione: che cosa si intende quando si parla di famiglia, maternità e/o paternità, figli.

Esattamente un secolo fa, quando il cinema parlava solo con le immagini, appariva sugli schermi “Il monello” di Chaplin. Anche lì, si incontravano due sconosciuti; anche lì un bambino abbandonato trovava un genitore e un vagabondo diventava tenero padre. A suo tempo, Chaplin – che come è noto ha avuto un’infanzia infelice ed è stato abbandonato a se stesso – disse che voleva fare «un film serio, che in mezzo a molti incidenti comici e farse­schi nascondesse un’ironia capace di risvegliare la pietà». Ha fatto di più. Ha precisato che il vero attestato di famiglia non è un pezzo di carta rilasciato dalle autorità con tanto di timbro, ma l’accoglienza. La lista dei registi che, sulla scia di Chaplin, hanno portato sugli schermi del mondo il risveglio della pietà è lunga e sta a testimoniare il valore di un cinema impegnato. Si pensi (per non rimanere nel vago, ma precisando che la lista sarebbe lunga) a Giuseppe Bertolucci de Il dolce rumore della vita (1999)  e alla ragazza che si prende cura di un bambino facendolo passare per suo figlio; a John Woo e al suo barbone che in Song Song and Little Cat (episodio di Bambini invisibili – 2005) trova una bambina abbandonata tra i rifiuti, la adotta e se ne prende cura; a Tizza Covi e Rainel Frimmer  e all’artista circense che in Non è ancora domani (La pivellina – 2009) si imbatte in una bambina abbandonata dalla madre con il biglietto “Tornerò a riprenderla”; ai fratelli Dardenne e al loro ragazzo con la bicicletta (2015) che ripudia il padre e sceglie come mamma una parrucchiera dolce e sensibile.

La vita, questo genere di vita di piccoli Oliver Twist, Senza famiglia e gabbianelle abbandonate,  lascia lo schermo e si presenta davanti a noi quotidianamente con titoli sui giornali, notizie di cronaca, immagini televisive. E così il Momò di Gary cambia nome: diventa Alì, Aylan, Victory…

E Madame Rosa? Il ruolo che fu della Signoret e della Loren è libero. Si accettano adulti disposti a interpretarlo sul set della coscienza.

 

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