Le avventure di Pinocchio

di Cosimo Rodia

 

Pinocchio[1] scritto da Carlo Lorenzini (1826-1890), conosciuto come Carlo Collodi, col nome del paese natale dell’amatissima madre, è il romanzo italiano più famoso e più tradotto all’estero (conosciutissimo negli Stati Uniti per via della trasposizione cinematografica della Walt Disney); e man mano che è tradotto, non mancano le edulcorazioni, come già avvenuto in Giappone o in Spagna.

Su Pinocchio è stato scritto molto e per evitare il già detto, ci limitiamo a presentare alcuni approcci critici al romanzo che consideriamo importanti.

Dopo La verità su Pinocchio di Volpicelli[2] e le pagine dedicate da Santucci nel suo Letteratura infantile[3], tralasciando le analisi prebelliche, di recente intorno al celeberrimo burattino ci sono state analisi strutturalistiche, antropologiche e psicoanalitiche come afferma Cambi[4].

Secondo la lettura psicoanalitica, infatti, in Pinocchio si concentra il binomio piacere-morte, che fa pendant con l’equivalente colpa-castigo, un punto essenziale che si manifesta pure negli altri personaggi altrettanto simbolici. Ad esempio, alla fine del IV capitolo, Pinocchio espone cosa gli piacerebbe fare: «Quello di mangiare, bere, dormire, divertirmi e fare dalla mattina alla sera la vita del vagabondo». La risposta del Grillo parlante è: «Per tua regola […] tutti quelli che fanno codesto mestiere finiscono quasi sempre all’ospedale o in prigione».

Secondo l’interpretazione psicoanalitica il Grillo rappresenta il senso di colpa che alimenta la pulsione di morte. C’è un dualismo in Pinocchio, titanico per alcuni aspetti, tra piacere e dovere, tra l’istinto e il sociale. La morte tra l’altro in Pinocchio è ben presente, visto che la rischia più volte (per fame, vicino al fuoco, impiccato…). Alla fine Pinocchio mostra come l’uscita dal guado avvenga giungendo ad un equilibrio tra soddisfazione dei bisogni e rinuncia. Il piacere e la norma si intrecciano tra di loro dialetticamente; e la giusta strada la si prende smussando le punte aguzze del comportamento e acquisendo con l’aiuto del padre (simbolo del Super-Io) e della Fata (simbolo della vita) le ragioni dell’ordine e della razionalità.

La misura è rappresentata sia dalla Fata che dal Grillo parlante; solo che il Grillo rappresenta il dover essere, imposto come un vecchio educatore, in modo precettistico: “Non devi fare questo; non devi fare quello”. La Fata, invece, usa le armi persuasive di una sorella maggiore prima e della mamma poi, che piega l’istintività di Pinocchio verso l’accettazione del principio del dovere. La Fata, infatti, spinge Pinocchio a frequentare la scuola e ad essere bravo, ma il principio di piacere è sempre in agguato, tanto da spingerlo lontano dalle stanze stantie e chiuse per l’avventura. E questa disubbidienza gli costerà cara, perché sarà degradato sino a livello bestiale, con la trasformazione in somaro o cane da guardia. L’assunto è: chi fa prevalere il principio di piacere, sprofonda nel grado zero dell’umanità. Infatti Pinocchio, per rinascere, dovrà essere ingoiato da un Pescecane; e una volta salvo, ritornerà ragazzo normale e rispettoso del principio del dovere.

Per Giancane[5] l’importanza educativa del racconto risiede nell’affermazione della coscienza quale controllo dei propri istinti che ci può far sopravvivere, dunque, il giovane lettore introietta facilmente questa verità e la fa sua, come non la farebbe con le sole parole del Grillo parlante.

Secondo un’analisi psicoanalitica, simbolici sono – oltre a Geppetto – anche Mangiafuoco e la Fatina; anzi, come ha scritto Giorgio Manganelli (1922-1990), sia Mangiafuoco che la Fata richiamano la figura del padre, che rappresenta il Super-Ego[6].

Il genitore a ogni marachella è presente ed è richiamato quale punto d’arrivo nel superare le negatività e adeguarsi al giusto; è richiamato ogni volta che Pinocchio vuole recuperare un mondo ordinato, con mansioni e comportamenti chiari e precisi. È nel bilanciare il sogno, rappresentato dalla fiaba, e l’ordine voluto dal padre che Pinocchio cresce e struttura un Io adeguato ed equilibrato.

Una lettura junghiana non ha mancato di rilevare nell’opera collodiana la presenza di archetipi tipici dell’uomo di ogni latitudine. Nei sogni, racconti, fiabe, miti, ritornano delle “figure”, delle situazioni che richiamano degli archetipi tipici, tra i più ricorrenti: l’ombra, il vecchio, il fanciullo, la madre.

L’ombra è la parte di sé legata alla primitività biologica, il nostro lato oscuro e irrazionale; ebbene, Pinocchio fino a quando è un burattino, è ancora l’ombra del bravo bambino. Acquisita coscienza, guarda la sua ombra con distacco; le parole finali del romanzo sono: «Pinocchio si voltò a guardarlo [il burattino appoggiato su una seggiola]; e dopo che l’ebbe guardato un poco disse dentro di sé con grandissima compiacenza: – Com’ero buffo quando ero un burattino! E come ora son contento di essere diventato  un ragazzino perbene!».

Pinocchio è maturo e preparato per affrontare la vita.

Sempre Manganelli individua, inoltre, come archetipo la doppia nascita: «Il Pescecane appare come una versione infinitamente fonda della madre, qualcosa di casualmente gravido, gestante degli abissi, bocca divorante navi e vegliardi e burattini […] che assennatamente genera»[7].

Un altro archetipo è il fanciullo minacciato dai pericoli o da entità malvagie (assassini, pescecani…) che nella mitologia simboleggia il pericolo che la coscienza soccomba alle energie negative. Per Giancane[8] Pinocchio può simboleggiare non solo il cammino dell’essere umano verso una perfettibilità, bensì il cammino dell’intera razza umana, che esce dalla sua ferinità e si avvia ad umanizzarsi, a riconoscere la norma, condizione essenziale per proseguire la sua storia.

Affascinanti sono le analisi pedagogiche dell’opera, che pur considerata didascalica, contiene un pedagogismo che si evince dal libro nel suo insieme più che dagli avvenimenti particolari[9]. In effetti il libro è di un pedagogismo nuovo, nel senso che a differenza di Cuore (1886), in cui i personaggi sono tutti stilizzati,  in Pinocchio il protagonista vive nella lotta interiore continua; è una corda tesa tra il mondo dei piaceri e quello della regola; eppure, senza ascoltare la Fata e ancor più il Grillo parlante, ovvero coloro i quali gli indicano la strada maestra, trova la sua via sulla propria pelle, imparando da sé. Ciò nonostante, Volpicelli avvicina Pinocchio a Cuore perché in entrambi i romanzi si afferma che per diventare ragazzi modello bisogna ubbidire e sottostare alle regole[10]. Percorsi diversi, insomma, per giungere allo stesso traguardo.

Non sono mancate le critiche a questo classico[11]; ma vale come riconoscimento condivisibile ciò che ha scritto Rodari: Pinocchio è «il primo libro per ragazzi scritto in Italia (e uno dei primi in Europa) in presa diretta con i ragazzi, liberati dalle loro uniformi di scolari… Collodi non si pone di fronte ai ragazzi come un maestro, ma come un adulto, così com’è: un adulto che accetta le regole del gioco, ma come può accettarle nel gioco la sua più vasta esperienza, la sua immaginazione che vede più lontano»[12].

Dunque, recuperando quanto ha scritto Petrini, Pinocchio è uno di quei libri che non parla di pedagogia, ma fa pedagogia; non offre delle formule ma solo delle risposte; in Pinocchio «c’è disciolta nel fiabesco quell’antipedagogia che è il contrario del reprimere ma anche dell’autoritario intervenire»[13]. Le ragioni del successo per Nobile risiedono nel fatto che ‹‹i bambini si riconoscono nel burattino e nelle sue avventure, si ritrovano nei suoi difetti, nelle sue debolezze, nei suoi slanci, nella forza dei suoi affetti e nell’enfasi dei suoi sentimenti››. E non solo: ad ammaliare i bambini intervengono anche ‹‹il ritmo serrato del racconto che procede rapido e incalzante, privo di pause descrittive, il susseguirsi dei colpi di scena, la forza visiva di ogni apparizione, la concretezza dei personaggi, dell’ambiente e del paesaggio››[14].

 

 

[1] Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino esce a puntate tra il 1881 e il 1883 sul “Giornale per i  bambini”. Vede la luce a romanzo nel 1883.

[2] Cfr. L. Volpicelli, La verità su Pinocchio, Avio, Roma 1963

[3] Cfr. L. Santucci, Letteratura per l’infanzia, Le Monnier, Firenze 1966.

[4] Cfr. F. Cambi, Collodi, De Amicis, Rodari, Dedalo, Bari 1985, p. 27.

[5]Cfr.  D. Giancane, I ragazzi e la lettura, Levante Editori, Bari 2002, p. 19.

[6] Cfr. G. Manganelli, Pinocchio: un libro parallelo, Adelphi, Milano 2002, p. 69.

[7] Ivi, p. 156.

[8]Cfr. D. Giancane, op. cit., p. 26.

[9] L. Santucci, op. cit., p. 61.

[10] L. Volpicelli, op. cit., p. 35.

[11] E. Nesti, Pinocchio libro per adulti, Quaderni della Fondazione Nazionale “C. Collodi”, Pescia 1969; F. Tempesti, Chi era Collodi. Com’è fatto Pinocchio, in Studi collodiani, Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia 1976.

[12] G. Rodari, Pinocchio nella letteratura per l’infanzia,  in Studi collodiani, cit., p. 43.

[13] E. Petrini, Dai temi narrativi alla letteratura giovanile, Patron, Bologna 1985, p. 201.

[14]A. Nobile, Letteratura giovanile, cit., p. 157.

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