Al mondo vuoto di Giorgia Mastropasqua, Controluna, 2024

di Cosimo Rodia

 

Al mondo vuoto contiene poesie da “età dell’ansia”, di preminente oscurità; una poesia in cui l’oggetto del poetare è quasi cancellato, com’è superato anche l’ordine delle cose; la realtà è presente se non per lacerti, così a muovere il canto non è la comprensibilità delle cose, ma le suggestioni personali che s’incatenano secondo una successione casuale, oppure secondo il dettato della coscienza interrogata.

Il significato delle poesie è appena afferrabile, la fantasia dell’autrice quasi deforma la realtà, la quale è presente se non con riferimenti denotativi: strade, scorci, esperienze; e questi riferimenti divengono veicoli di una corrente invisibile di tensione.

Le trame del narrato sono nascoste dietro figure originali e la parola crea aloni di silenzio. Così viene da pensare che la poesia di Mastropasqua si svolga non nei fatti, ma nella creazione della mente, un processo di costruzione che vede in tandem il lavoro dell’immaginazione e della ragione.

Una poesia che ha depurato i rapporti con l’esperienza vissuta, col mondo fenomenico e finanche col sentimento, perché questo sembra che dia solo il là alle successioni audaci del pensiero.

Benché sia una poesia suasiva, accattivante, ‘sirena’, parla di uno spazio interiore senza che appaia se non raramente il corpo; inoltre, il narrato non racconta per mezzo di rapporti grammaticali conosciuti, ma sembra che irradi da sé stesso le molteplici possibilità di senso; si legga ad me esempio “Mori”: «Una caligine scura/vena le mura di questa città/così la nebbia sale sui prati/offusca i campi e il nastro d’asfalto,/astro eccentrico/in orbita disciolta/vestibolo azzurrino/di uno spazio rituale/solo per te, voce salva/vorresti scappare/ lungo i sentieri, le tracce/i passaggi, ascolti il lamento/dei cancelli alla catena/rispondi al pianto./Fra questi pini/nessuna torre è autentica/giovani rovine/opera del lunatico/i mori dei suoi tempi/stanno chiusi/dentro sogni merlati».  Un paesaggio da “The Waste Land”, in cui l’autrice si muove tra realtà e fantasia, e tracce di un passato da cui emergono più che i fatti, le sensazioni di spaesamento o di inautenticità. O, ancora, si legga “Piano Rosso”: «Con il braccio nudo/scorre la stella i cordoni/ dell’opera grande./Annoda una treccia/che può riprodurre/in registrazione./Incisi i ricordi/da recitare/una per volta […]» dove troviamo presenze evanescenti, dall’oggetto oscuro; solo alcuni emistichi lanciano delle tracce di significato, da cui si evince un braccio nudo che suona una tastiera, il resto sono una serie di immagini tenute insieme da una melica avvolgente e da un senso di incipiente disvelamento.

È una poesia quella Mastropasqua che si rivolge perennemente ad un tu, sicuramente un tu reale, ma allo stesso tempo un tu sparito dai radar affettivi, benchè abbia lasciato frustrazione e disorientamento; ciò nonostante, quel tu è una traccia umana forte, come pregnante è anche il dolore (scaturito dal tu allontanato). Il tu sembra che diventi funzionale sia al rammemorare la presenza di un amore che non c’è più, sia per raccontare un mondo metonimico, come in “Assedio”, in cui il mondo è presentato nel suo contenente, totalmente smaterializzato. Si legga anche “Addio”, dal titolo emblematico in cui, procedendo con pensieri intermittenti, si cristallizza un dolore senza contorni («Non saprei trovare/casa tua»). O ancora si legga la prima lirica della silloge: “È impresso”, in cui è rappreso uno spirito che sente il peso della perdita, oltre allo sgomento di perdere finanche il ricordo di un amore, benchè già perso: «[…] il tuo ricordo/lo affido al ritmo/della stagione breve/al tamburo automatico/della scatola armonica».

Siamo di fronte ad una lirica dal linguaggio plurivalente, la cui concretezza passa attraverso le parole, com’anche, forse, il contenuto del pensiero; si legga ad esempio “Ora capisco”, in cui l’anima si perde tra le pieghe di un mondo che diventa piano piano evanescente: «[…] Eppure, fra queste foglie e sul filo/della terra dalle diverse essenze/mi hanno detto che sei andata a piangere:/stanzette motori ebbrezze./Sei andata a piangere anima mia/incontenibile primavera di città./E temi la nebbia come nient’altro al mondo./È talento eludere la notte, a piacimento». Anche in “Oslavia” il ricordo diventa lo spunto per la poetessa di precisare il proprio essere nel mondo in una condizione neutra, senza dilemmi dell’animo, né della materialità, dalla cui lettura si percepisce che la vita non ha una ratio.

L’ultima lirica a me pare che costituisca un punto riassuntivo del pensiero della giovane autrice: «Dove la grammatica delle cose/cede al passo felpato/del gatto selvatico/e la realtà collassa/svelando un desiderio/di docile resa/gli spiriti dispari/raccontano scintille/grazia inesausta sul fondo nero». Ecco, la grammatica delle cose cede al passo silenzioso e imprevedibile del gatto (esistenza), sulla cui verità si stende un telo nero di resa.

Una silloge dal registro colto e ricercato, con l’uso copioso di metafore («luce di chiavistello»), sinestesie («Il sapore delle bacche/non risponde al tono scuro»), sineddoche («collegio di chiavi»), ossimori («sconosciuti amici»)…

Una opera prima accattivante, di un’autrice che ha sicuramente ancora molto da dire; l’augurio è che nella prossima raccolta il canto si sciolga, sia esso depurato dell’aspetto più cerebrale, diminuiscano le associazioni che hanno un riconoscimento solo privato, per rendere il racconto poetico più fruibile dal lettore che già sente nell’eufonia, un canto di sirena da esserne avvinto.

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